Svolta storica in Sudan: vietate le mutilazioni genitali femminili
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In Sudan è un momento storico importantissimo: le mutilazioni genitali femminili sono finalmente e con legge, divenute un crimine. Una pratica, questa, che è purtroppo ancora molto diffusa soprattutto nei Paesi del Sud del mondo e che viene effettuata su 9 donne su 10. Le mutilazioni genitali femminili (MFG) consistono nella rimozione, parziale o totale, dei genitali femminili per ragioni soprattutto culturali e non terapeutiche. Si praticano principalmente in 28 Paesi dell’Africa Sub Sahariana, ma le ragazze e donne a rischio di subire questa pratica sono ovunque: anche in Europa ed in Italia.

Molte sono state le campagne per l’abbandono delle mutilazioni genitali femminili, tra cui ricordiamo quella di Amnesty International, che nel settembre 2009 diede vita alla campagna europea “End Fmg”; mentre in Italia promotori di queste campagne sono stati soprattutto i Radicali Italiani.

Il nuovo Governo del Sudan, il 2 maggio scorso, ha finalmente messo al bando la pratica delle mutilazioni genitali femminili, scelta accolta come una grande vittoria per le attiviste dei diritti delle donne. Secondo una stima dell’Unicef, infatti, l’88% delle donne sudanesi tra i 15 e i 49 anni sono state sottoposte alla forma più invasiva della mutilazione genitale. «La maggior parte delle donne sudanesi subisce quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama circoncisione di tipo III, una forma estrema in cui vengono rimosse le labbra interne ed esterne, e di solito il clitoride», spiega Francesca Mancuso in un articolo pubblicato su Greenme.

La tradizione delle mutilazioni genitali in Sudan è sostenuta dalla credenza secondo la quale questa pratica preservi l’onore della famiglia e le basi nel matrimonio. Chiaramente la mutilazione genitale può causare infezioni, infertilità, complicazioni durante il parto e addirittura la morte, senza tralasciare il degrado di tutta una serie di diritti che per noi sono scontati e in Sudan, come in altre parti del mondo, sono ancora oggi un miraggio. Non è un caso che i ricercatori della Thomas Returs Foundation abbiano classificato il Sudan come uno dei peggior paesi per tutela dei diritti delle donne.

Svolta storica in Sudan: vietate le mutilazioni genitali femminili
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Questa importante vittoria è arrivata grazie alla modifica di un emendamento del cosiddetto “Criminal Act”, approvata dal Governo di transizione del paese guidato dal Primo Ministro Abdalla Hamdok, salito al potere nel 2019 dopo la sconfitta di Omar Hassan al-Bashir. Con questa nuova disposizione, il cui riferimento va ricercato nel nuovo articolo del codice penale sancito al capitolo 14 della dichiarazione costituzionale sui diritti e le libertà approvata nell’agosto 2019, a chi effettua mutilazioni genitali femminili in Sudan verrà inflitta una pena pari a tre anni di carcere e una multa.

«Questo è un grande passo per il Sudan e il suo nuovo governo», ha dichiarato Nimco Ali della Five Foundation, organizzazione che si batte per mettere fine, a livello mondiale, la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Il Ministro degli Affari esteri del Sudan ha accolto con piacere la decisione di criminalizzare la pratica delle mutilazioni genitali femminili sostenendo che si tratta di «un importante sviluppo positivo», anche se riconosce che la totale applicazione di questa legge abbia bisogno di sforzi concreti, nonché di uno continuo coordinamento con i gruppi comunitari e le organizzazioni della società civile.

Questo perché non siamo di fronte solo a riforme legali, ma anche a riforme culturali e sociali che devono sradicare una pratica che plasma le stesse civiltà del Sudan. L’approvazione della legge che vieta le mutilazioni genitali femminili da sola non sarà sufficiente per porre fine alla pratica poiché è intrisa di credenze culturali e religiose, e in alcuni casi perfino sostenuta da alcune donne come pilastro del matrimonio e della tradizione.

Ma  «questa pratica non è solo una violazione dei diritti di ogni bambina, è dannosa e ha gravi conseguenze per la salute fisica e mentale di una ragazza», ha sottolineato Abdullah Fadil, rappresentante Unicef in Sudan. «Ecco perché i governi e le comunità devono agire immediatamente per porre fine a questa pratica. Dobbiamo lavorare molto duramente con le comunità per farla rispettare», si legge ancora nell’articolo di Francesca Mancuso. Per questo c’è bisogno di lavorare a stretto contatto con le culture e le civiltà del Sudan che devono esser preparate ad un cambio radicale in nome dei diritti umani e dei diritti delle donne.

In Sudan infatti, le questioni di genere e quindi anche la triste pratica delle mutilazioni genitali femminili sono diventate argomento di dibattito solo a partire dall’ultimo anno, cruciale per la svolta politica e democratica del Paese, grazie all’elezione a Primo Ministro di Abdalla Hamdok, che per il suo spirito rivoluzionario e innovatore ha già rischiato la vita, ha nominato donne ai dicasteri di affari esteri, gioventù e sport, istruzione superiore, lavoro e sviluppo sociale; le stesse che hanno preso parte attiva nelle proteste contro il dittatore Omar Hassan al-Bashir, spodestato dopo tumulti e rivolte nell’aprile 2019.

Il nuovo Governo del Sudan ha anche abrogato la precedente legge sull’ordine pubblico, che limitava drasticamente alcune fondamentali libertà delle donne come quella di vestirsi, muoversi, associarsi, lavorare e studiare. Era infatti loro vietato indossare pantaloni o lasciare i capelli scoperti in pubblico e incontrare uomini che non fossero mariti o parenti stretti.

La strada però è ancora lunga, nonostante il vento di cambiamento ormai evidente nel Paese, come riscatto dalle lacerazioni della lunga detenzione del potere di al-Bashir. Tuttora, ad esempio, stupro coniugale e matrimonio infantile non sono considerati crimini. Anche la lotta alle mutilazioni genitali femminili non si deve concludere con l’approvazione della norma relativa alla criminalizzazione della pratica, perché come sottolineato anche dall’Unicef, «Le ragazze ancora integre vengono considerate impure e sovente emarginate. È fondamentale creare i presupposti per un graduale cambiamento di mentalità, affinché ogni bambina sia accettata così com’è».

È infatti proprio il Sudan che, tra tutti i Paesi africani, ha più radicata nella cultura e nella tradizione la pratica delle mutilazioni genitali femminili; e come riporta Unicef le donne integre sono etichettate come “qualfa”, un termine che denota vergogna ed esclusione sociale; per contrastare questo stigma ha introdotto la parola “saalema”, «che esprime il concetto di integra, intatta, sana, incolume e si è largamente diffusa per indicare le donne che non hanno subìto la mutilazione. Ogni bambina viene infatti al mondo intatta e perfetta».

Siamo quindi di fronte a un’importante vittoria legislativa che deve però divenire reale a tutti gli effetti: la strada è ancora lunga, ma sicuramente è quella giusta.

Martina Guadalti

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