Scuole residenziali - Papa Francesco
Fonte immagine: wikimedia.org

«Per la deplorevole condotta di quei membri della Chiesa cattolica chiedo perdono a Dio».

Negli anni in cui il sistema è stato in vigore, circa 150mila bambini indigeni sono stati ospitati forzatamente all’interno delle scuole residenziali, risultate completamente inadeguate anche a fornire una qualsivoglia forma di istruzione: quando non si pregava, infatti, gli insegnamenti si concentravano prevalentemente su attività pratiche. Le bambine venivano preparate ai lavori domestici, insegnando loro a fare il bucato, cucinare, pulire e cucire; mentre ai bambini si insegnava la falegnameria, la lattoneria e l’agricoltura. Numerosi, poi, erano gli studenti che frequentavano le lezioni part-time e lavoravano per la scuola il resto del tempo, senza ricevere alcuna retribuzione e permettendo alle scuole stesse di continuare a funzionare.

Nessun riferimento, dunque, alla cultura indigena di cui, anzi, si cercava di cancellare ogni traccia, tagliando le trecce ai bambini e impedendo loro di comunicare nella propria lingua. Le scuole residenziali, quindi, hanno anche pesantemente contribuito alle disparità educative, sociali, finanziarie e sanitarie tra i popoli indigeni e il resto del Canada, con tutte le conseguenze – individuali e collettive – che ancora oggi questa dolorosa eredità continua a comportare.  «Traumi irrisolti» tornando alle parole di Papa Francesco «che sono diventati traumi intergenerazionali».

Traumi che non sarà semplice superare poiché se, da un lato, il processo di guarigione collettivo può dirsi cominciato, dall’altro, l’oppressione dei popoli indigeni continua ancora oggi sotto forme diverse: dispute per la terra, elevati tassi di detenzione di alcuni membri delle comunità, pratiche di sterilizzazione forzata per le donne. Quindi, anche se le scuole residenziali non sono più operative, le identità, le culture e le spiritualità indigene non possono ancora considerarsi del tutto salve. Tuttavia, facendo luce sugli orrori del passato sarà forse più facile prevenire – o almeno provare a prevenire – la ripetizione di quei processi e di quelle logiche colonizzatrici che hanno appiattito la diversità culturale in nome della presunta superiorità della civiltà eurocentrica.

Proprio questa è la motivazione alla base della richiesta avanzata da Chief Rosanne Casimir – una delle rappresentanti delle First Nations, arrivati in Vaticano il 28 marzo scorso – di avere accesso ai registri e ai documenti in possesso della Chiesa cattolica per poter risalire all’identità dei bimbi scomparsi, di cui almeno 4mila trovarono la morte all’interno delle scuole residenziali canadesi, tra malattie, fame e abusi fisici e psicologici.

Se Papa Francesco si mostrerà aperto nei confronti di una simile istanza è presto per poterlo dire. Per ora si è limitato, seppur fermamente, a condannare la mentalità coloniale come, d’altra parte, aveva già fatto tre anni fa, indicendo il Sinodo per l’Amazzonia, nel quale il tema del rispetto delle identità era stato sottolineato sin dalla messa inaugurale: «Quante volte il dono di Dio non è stato offerto ma imposto, quante volte c’è stata colonizzazione anziché evangelizzazione! Dio ci preservi dall’avidità dei nuovi colonialismi».

Parole, queste ultime, che sembrano collegarsi perfettamente a quelle pronunciate appena qualche giorno fa, quando il Pontefice ha auspicato una rivitalizzazione della cultura indigena, la quale, però, potrà compiersi pienamente solo attraverso una presa di coscienza collettiva che riguardi tanto il ruolo delle comunità indigene quanto quello della fede cristiana cattolica. Alle prime, infatti, si dovrà riconoscere il merito fondamentale di saper proteggere e curare, in un modo a noi sconosciuto, la Madre Terra che tutti ospita e nutre. Mentre alla fede bisognerà smettere di guardare come al frutto di una cultura specifica e trasformarla, invece, nella portatrice di un messaggio universale di salvezza e speranza che trascenda le differenze culturali dei popoli e che, anzi, nelle stesse sappia trovare la forza motrice per arricchire il modo in cui il Vangelo viene annunciato e, soprattutto, interiorizzato e vissuto.

Virgilia De Cicco

Virgilia De Cicco
Ecofemminista. Autocritica, tanto. Autoironica, di più. Mi piace leggere, ma non ho un genere preferito. Spazio dall'etichetta dello Svelto a Murakami, passando per S.J. Gould. Mi sto appassionando all'ecologia politica e, a quanto pare, alla scrittura. Non ho un buon senso dell'orientamento, ma mi piace pensare che "se impari la strada a memoria di certo non trovi granché. Se invece smarrisci la rotta il mondo è lì tutto per te".

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