La giornata internazionale della donna è lotta e resistenza, ma anche riflessione e osservazione. È tornare al passato – organizzando scioperi che richiamano alla memoria le mobilitazioni delle donne operaie di inizio Novecento – per interrogarsi sul futuro. Un futuro che per consentire al femminismo di evolvere e sopravvivere dovrà, forse, lasciarsi alle spalle l’esperienza del presente. Un’esperienza in cui femminismo e liberalismo sono tornati a dialogare con rinnovato fervore, dando vita al femminismo neoliberale.
L’ascesa di questo tipo di femminismo è recente ed è coincisa, tra l’altro, con l’appropriazione di temi femministi da parte di donne ricche, privilegiate e di successo. Lo abbiamo visto accadere, per non andare troppo indietro nel tempo né allontanarci dal nostro contesto nazionale, durante la settimana sanremese, quando Chiara Ferragni ha portato sul palco dell’Ariston il tema della violenza sulle donne e quello della sindrome dell’impostore. Azione senza dubbio meritevole se non fosse che, per amore della complessità, non si possono ignorare limiti e contraddizioni che questo tipo di femminismo si porta dietro come un macigno.
Se da un lato, infatti, al femminismo neoliberale va riconosciuto di essere riuscito a trasformare il femminismo in un prodotto della cultura pop, contribuendo ad abbattere quell’astio che a lungo e a priori si è nutrito nei confronti delle sue argomentazioni, dall’altro bisogna prendere coscienza del rischio che si annida in tale circostanza poiché, a fronte della popolarità che ne guadagna, il femminismo sembra dover rinunciare al suo spessore storico e teorico. Ridurre il femminismo a una dimensione pop rischia, insomma, di svuotare di senso il suo messaggio, di trasformarne le fattezze, rendendolo più simile a uno slogan motivazionale che non a un’ideologia dal potere sovversivo.
Uno slogan dai tratti incoraggianti che, però, non sembra tener conto delle molteplici discriminazioni che si intersecano sui corpi delle donne e che spesso si riduce, invece, a una mera questione di volontà. Una delle principali criticità del femminismo neoliberale è, infatti, che finisce per parlare solo alle donne dei ceti medio-alti, quelle per le quali il motto “volere è potere” è realmente declinabile all’interno delle loro vite, provenendo – appunto – da famiglie ricche e avendo più facilmente accesso a quegli strumenti che consentono loro di fare carriera e avere successo nel mondo del lavoro. Il femminismo neoliberale sposa, infatti, l’idea della rottura del soffitto di cristallo e guarda all’accesso al mondo del lavoro come a un prerequisito indispensabile a realizzare l’agognata uguaglianza tra i sessi.
Ma farsi avanti e avere il coraggio di far valere i propri diritti nel mondo del lavoro così com’è attualmente strutturato è una soluzione praticabile, appunto, solo nella vita di un certo ceto sociale femminile, bianco e benestante. Malgrado la pretesa di universalizzare le esperienze di poche, quindi, la realtà è ben lontana da quella che il femminismo neoliberale è interessato a costruire e vede le donne trans, così come quelle nere e quelle povere, restare a spazzare i cocci di un soffitto di cristallo che solo in poche sono riuscite a infrangere. E non prendere in considerazione le esperienze e i vissuti di chi spazza i cocci significa dare per scontato il proprio privilegio e fornire un contributo assai blando allo scardinamento del sistema patriarcale. È questo l’effetto individualizzante e politicamente anestetizzante di cui parla la studiosa Catherine Rottenberg per descrivere questo tipo di femminismo.
Pertanto, senza invalidare i contributi – che pure non sono mancati – di chi ha deciso di impiegare il proprio privilegio per dare voce e spazio a tematiche femministe che altrimenti non sarebbero state oggetto di pubblica attenzione, occorre piuttosto riconoscere la parzialità di un approccio che nega l’influenza che le strutture socioeconomiche hanno nella vita di tutte e tutti, ed esclude dalla narrazione la lotta di classe e quella antirazzista come pure la critica del sistema capitalista. Per recuperare quell’orizzontalità a cui il femminismo dovrebbe ambire, dunque, servirebbe rimettere al centro dei suoi obiettivi le discriminazioni intersezionali perché – come scrive Kimberlé Crenshaw, che per prima ha utilizzato questa espressione – la lotta contro il patriarcato deve intrecciarsi alle altre lotte perché senza un approccio intersezionale alcune di noi sono destinate a cadere nelle crepe.
Virgilia De Cicco