Quella che si sta svolgendo in Egitto (dal 6 al 18 novembre) si prospetta una Conferenza sul clima notevolmente diversa rispetto alle edizioni precedenti. Le condizioni in cui avrà luogo la Cop27, infatti, lasciano presagire che essa stia per svuotarsi anche di quel significato simbolico che, almeno fino a questo momento, non era mai stato in discussione per trasformarsi in una gigantesca operazione di greenwashing.
Da sempre le Cop costituiscono un importante momento di confronto in cui i leader mondiali discutono le azioni da adottare per affrontare la crisi climatica. In questo contesto, l’assunzione di impegni per ridurre le emissioni climalteranti rappresenta un significativo banco di prova attraverso cui misurare il successo stesso delle conferenze sul clima. E se, nei fatti, gli impegni assunti tendono a scemare già nei mesi successivi ai vertici climatici, la copertura mediatica degli eventi e la pressione esercitata da società civile e movimenti ambientalisti permette di mantenere alta l’attenzione prima, durante e dopo gli incontri. Per circa due settimane la crisi climatica fa notizia a livello internazionale e tiene banco su guerra, cronaca nera, strascichi pandemici e politica interna. Non si tratta però di individuare la notizia peggiore, ma di superare quei bias cognitivi che impediscono di considerare la crisi climatica una minaccia molto più vicina – nel tempo e nello spazio – di quanto pensiamo.
C’è poi la rete di contro-summit e manifestazioni che si svolgono al di fuori delle sedi ufficiali, effetto collaterale ma non per questo meno significativo dei vertici climatici. Ce lo ha insegnato la Cop di Glasgow, il cui merito maggiore è stato l’aver fornito un luogo di incontro a quelle voci inascoltate e marginalizzate che proprio nel movimento ambientalista hanno trovato il loro minimo comune denominatore. Ma se, quanto a cortei, scioperi pacifici e manifestazioni, Glasgow ha involontariamente insegnato, Sharm el Sheik potrebbe volontariamente proibire.
Cop27 e rispetto dei diritti umani
La Cop27 si terrà infatti in quello che, a tutti gli effetti, è uno Stato di polizia. L’Egitto – guidato dal generale Abdel Fatah al-Sisi, che ha preso il potere con un colpo di Stato militare nel 2013 e che da allora lo detiene ricorrendo a elezioni farsa – costituisce, secondo le organizzazioni per i diritti umani, uno dei regimi più brutali e repressivi al mondo. Da quando al-Sisi ha preso il potere ha fatto costruire più di due dozzine di nuove prigioni, dove le forze di sicurezza del Ministero dell’Interno e l’Agenzia per la sicurezza nazionale detengono e torturano (dopo arresti arbitrari) i presunti dissidenti del regime. 120mila sono state le persone detenute nelle carceri egiziane lo scorso anno. E mentre questo numero va aumentando, le autorità egiziane continuano a limitare fortemente lo spazio per i gruppi della società civile e a colpire brutalmente i difensori dei diritti umani.
L’intero Egitto è imbavagliato da una legge draconiana del 2019, che impone ai ricercatori di ottenere il permesso del governo prima di pubblicare informazioni considerate politiche. Nella pratica, però, la legge in questione vieta un’assai vasta gamma di attività, incluso lo svolgimento di sondaggi d’opinione e la divulgazione dei loro risultati che non abbiano prima ottenuto l’approvazione governativa, consentendo invece alle autorità di sciogliere le organizzazioni sulla base di una lunga serie di “violazioni” e di imporre multe fino a un milione di sterline egiziane (60.000 dollari) per quelle che operano senza licenza o che inviano o ricevono fondi senza approvazione.
Lo stesso trattamento è riservato ai gruppi ambientalisti. Come dichiarato da Human Rights Watch, il governo ha fortemente limitato la loro capacità di promuovere politiche indipendenti, attività di advocacy e lavoro sul campo, essenziali per proteggere l’ambiente naturale del Paese. «Il governo egiziano ha imposto ostacoli arbitrari ai finanziamenti, alla ricerca e alla registrazione che hanno debilitato i gruppi ambientalisti locali, costringendo alcuni attivisti all’esilio e altri a svolgere lavori poco rilevanti», ha affermato Richard Pearshouse, direttore per l’ambiente di Human Rights Watch. La richiesta che arriva da HRW e che si rivolge alle autorità egiziane è, pertanto, quella di interrompere con urgenza la campagna di repressione contro i gruppi indipendenti della società civile, inclusi i gruppi ambientalisti, ponendo fine agli annosi procedimenti giudiziari, al congelamento dei beni e ai divieti di viaggio. Il governo egiziano dovrebbe altresì modificare drasticamente la legge del 2019 sui gruppi non governativi, in conformità con la sua Costituzione e con gli obblighi internazionali di protezione della libertà di associazione, e procedere allo sblocco di tutti i siti web di notizie e di diritti umani.
Greenwashing di regime
Ma per ora l’unica operazione in cui si sta impegnando l’Egitto è una spettacolare manovra di greenwashing istituzionale, come apertamente dimostrato dal video promozionale presente sul sito ufficiale della Cop27. Il video in questione, pensato per dare il benvenuto ai delegati nella “città verde” di Sharm el-Sheik, mostra quelli che, almeno nelle intenzioni del videomaker, dovrebbero sembrare giovani attivisti ambientalisti mentre si scattano selfie sulla spiaggia, fanno docce all’aperto e guidano veicoli elettrici nel deserto. Il tutto mentre utilizzano cannucce e contenitori per alimenti realizzati in materiale biodegradabile.
L’impiego di materiali da imballaggio biodegradabili – unitamente a raccolta dei rifiuti, riciclaggio, energie rinnovabili, sicurezza alimentare e finanziamenti per il clima – è infatti un argomento tollerato dalla scure censoria, poiché si concilia con le priorità del governo e non viene percepito come critico nei suoi confronti. Quelli che, al contrario, evidenziano l’incapacità del governo di proteggere i diritti delle persone, tra cui la sicurezza dell’acqua, l’inquinamento industriale e i danni ambientali causati dal settore immobiliare, dallo sviluppo turistico e dall’agroalimentare, non trovano spazio nelle discussioni che accompagnano la Cop27.
Nulla di cui stupirsi, se si considera che l’impegno egiziano a favore delle questioni climatiche e ambientali viene bollato come altamente insufficiente. Come si legge sulla scheda informativa che Climate Action Tracker – gruppo indipendente di ricerca scientifica con l’obiettivo di verificare l’azione dei governi per la riduzione delle emissioni dei gas serra – dedica all’Egitto, esso è responsabile di oltre un terzo del consumo totale di gas fossile in Africa ed è il secondo produttore di gas del continente. A livello nazionale il governo si sta impegnando per aumentare il consumo di gas in quasi tutti i settori, e sebbene non manchino investimenti nelle energie rinnovabili si corre concretamente il rischio che la sua leadership non risulti adeguata nel condurre trattative a favore di impegni seri e vincolanti nella riduzione della dipendenza globale dalle fonti fossili.
E allora, date le premesse, è purtroppo già lecito dubitare dell’efficacia della Cop27 in Egitto. In un mondo dominato dalla complessità delle connessioni non si può continuare a pensare alla crisi climatica come a una crisi settoriale. Quella climatica, infatti, non è solo la crisi del clima ed è quantomai ingenuo ritenere di poterne arginare gli effetti senza ragionare anche su tutti quegli aspetti – compreso il rispetto dei diritti umani – che proprio la crisi climatica investe e trascina come inevitabile conseguenza. Ecco perché aver scelto di ospitare la Cop in un Paese in cui non è possibile confrontarsi apertamente sui diritti dell’uomo e dell’ambiente senza sentir incombere su di sé la minaccia della censura o, peggio, dell’arresto, appare in contraddizione con quelli che dovrebbero essere gli stessi principi ispiratori dei vertici climatici.
Virgilia De Cicco