Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista“. Famosa frase di Kenneth Boulding, economista inglese in riferimento a quell’insensata teoria secondo la quale la crescita economica, che ci ha portato tanto lontano, possa continuare ad andare avanti all’infinito. Per Herman Daly, economista statunitense, invece: “I fatti sono semplici e incontestabili: la biosfera è finita, non cresce, è chiusa ed è regolata dalle leggi della termodinamica. Qualunque sottosistema, come l’economia, a un certo punto deve smettere di crescere e adattarsi a un equilibrio dinamico, simile a uno stato stazionario”. 

Ma in che modo termodinamica ed economia sono collegati? La termodinamica è quella branca della fisica che descrive le trasformazioni subite da un sistema in seguito ai processi che coinvolgono la trasformazione di materia ed energia. Il secondo principio della termodinamica evidenzia che la quantità di energia degrada in modo irreversibile, trasformandosi da energia libera in energia non utilizzabile. In altre parole il nostro sistema economico, come un sistema termodinamico, si basa sul consumo di materia ed energia ordinata ed espelle queste ultime in forma disordinata. Questo processo è irreversibile. Come dicevamo prima viviamo in un sistema chiuso, che è il nostro pianeta, quindi l’energia e la materia da noi utilizzate non sono infinite e per questo motivo l’economia di cui sopra non potrà crescere indefinitivamente.

Serge Latouche, economista e filosofo francese, critica aspramente il sistema economico odierno, destinato al collasso, cosa che è già sotto i nostri occhi, e propone, quindi, una prospettiva economica alternativa denominata “decrescita felice“. Questo termine nasce dapprima in ambito economico, contestando il sistema economico suddetto, ma travalica subito in ambito filosofico, puntando al miglioramento del nostro approccio alla vita.

Molti di noi associano, inevitabilmente, la parola “decrescita” a qualcosa che va contro il benessere umano. E’ bene chiarire che “decrescita felice” non vuol dire recessione ne  indica la riduzione quantitativa del Pil o in qualche modo un ritorno a un economia medioevale. Semplicemente questa decrescita rappresenta il rifiuto di ciò che non serve, il rifiuto di tutte quelle merci che non soddisfano alcun bisogno ma che hanno comunque un peso sulla nostra economia e sull’ambiente.

In una società capitalista e consumista come la nostra, siamo sempre più abituati a considerare il Pil di un paese  come un termometro del benessere. Siamo stati portati a credere che più il prodotto interno lordo è altro più il popolo è felice. Questo perchè stiamo basando le nostre vite appunto sul consumo, sulla quantità di prodotti posseduti piuttosto che sulla qualità e sull’utilità dei prodotti stessi.

La decrescita felice rappresenta una vera e propria rivoluzione culturale, una rivoluzione che può aiutarci a cambiare punto di vista sul mondo e sulla società. Secondo Latouche è necessario uscire dal capitalismo e, successivamente, redistribuire equamente sia la ricchezza economica che le possibilità di accesso alle risorse naturali. L’economista francese sottolinea in particolar modo che questa decrescita vuol dire anche riduzione. Riduzione che deve riguardare molti ambiti, come quello energetico, riducendo ad esempio i trasporti delle merci e rafforzando i mercati locali, le ore di lavoro, così da farci riscoprire il significato di tempo personale, la produzione dei rifiuti tramiti due concetti basilari ovvero riutilizzo e riciclo di ciò che usiamo, abolendo definitivamente la cultura dell’usa e getta.

Affinchè tutto questo diventi realtà c’è bisogno però di un radicale cambiamento di mentalità che ci permetta di scoprire nuovi modi di intendere il benessere. Come tutte le rivoluzioni anche questa deve partire dal basso, dalle realtà locali, in modo umile e non con l’arroganza di chi pretende di “cambiare il mondo” tramite ideali utopistici. Da come si può capire questa nuova prospettiva economica, elaborata da Latouche, più che uno studio economico è un programma pratico e filosofico.

In genere le domande si pongono all’inizio di una conversazione o, in questo caso, di un articolo. Qui invece accade l’esatto contrario. L’interrogativo che tutti dovremmo porci è: siamo disposti a rinunciare a tutte quelle piccole comodità che ci danno l’illusione del benessere, a favore di una società migliore, di una vita migliore, in cui il benessere e la felicità non saranno più illusioni misurate in base al prodotto interno lordo?

Marco Pisano

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