Si è chiusa pochi giorni fa la 73esima sessione della Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia, svoltasi a Ginevra dal 13 al 30 settembre. Uno dei punti in agenda ha riguardato il caso di Nauru, la piccola isola del Pacifico su cui il governo dell’Australia ha impiantato e gestisce uno dei suoi offshore processing centres, gli ormai tristemente famosi centri di detenzione per migranti.
L’agghiacciante cache di dati relativi al centro di Nauru, giornalisticamente nota come “Nauru files“, pubblicata l’agosto scorso da un team di reporter del Guardian, conta 1,086 incidenti riguardanti minori su un totale di 2,116 rapporti. Alla luce dell’esorbitante numero di abusi fisici perpetrati sull’isola e da poco venuti alla luce, l’ONU ha interrogato il governo di Nauru sulle misure che intende adottare per la prevenzione di questi incidenti e la protezione dei bambini.
Il ministro dell’immigrazione australiano, il liberale Peter Dutton, anch’egli presente a New York in occasione della 71esima Assemblea Generale ONU, ha ribadito che l’Australia manterrà attivo il centro di detenzione di Nauru per decenni se necessario. Dutton e il primo ministro australiano Malcolm Turnbull hanno partecipato al summit dell’Assemblea sui migranti e i rifugiati avvenuto il 19 settembre, durante il quale è stato condotto uno scrutinio sulle controverse vicende che hanno portato l’Australia all’attenzione di varie ONG che si occupano di diritti umani. Pochi giorni prima del summit, Turnbull aveva encomiato la politica migratoria del suo paese definendola senza mezzi termini «la migliore al mondo».
«L’opinione pubblica non accetterà un generoso programma umanitario a meno che il governo non si mostri fermamente al comando dei propri confini» ha dichiarato il primo ministro.
Quanto detto da Turnbull fa eco al discorso che il suo predecessore, l’ex primo ministro Tony Abbott, ha tenuto in occasione di un congresso dell’Alleanza dei Conservatori e dei Riformisti Europei tenutosi a Praga a metà settembre. Abbott ha parlato della crisi migratoria che sta vivendo l’Europa in termini di «invasione pacifica», suggerendo che adottare misure analoghe a quelle da lui lanciate nel 2013 col diktat «stop the boats» (vedi Operation Sovereign Borders) scongiurerebbe il rischio di una “sfida esistenziale” per l’identità europea.
Poche settimane fa è stato pubblicato sul Guardian un articolo di Melissa Conley Tyler, direttore esecutivo dell’Australian Institute of International Affairs, in cui vengono enumerate le principali ragioni dell’autrice secondo cui applicare le politiche migratorie australiane in Europa sia del tutto utopistico. Nel contraddire in toto il pensiero di Abbott, la Tyler ha espresso un parere non troppo distante dalle ultime dichiarazioni dell’attuale primo ministro Turnbull, ovvero la necessità che l’opinione pubblica maturi l’idea che i processi migratori di massa siano tenuti sotto controllo; solo in questo modo, dunque, l’accettazione sociale dei suddetti può realizzarsi in pieno.
Il centro del discorso, per una fetta di opinione pubblica, è dunque semplice: se è il governo ad accettare un certo numero di rifugiati il sistema funziona, mentre una quantità indefinita di persone giunte in prossimità delle coste “senza invito” crea una frattura. Un esempio concreto è la dichiarazione di Abbott (risalente ad un anno fa, quando ancora era in carica) secondo cui il governo australiano avrebbe accolto 12,000 rifugiati siriani; essendone in un anno giunti solo 3,500, sei delle maggiori organizzazioni umanitarie australiane (World Vision, Oxfam, Save the Children, Plan International, Care e Amnesty International) hanno aspramente criticato il governo facendo pressione affinché il ricollocamento avvenga entro marzo 2017.
Le differenze profonde che esistono tra la situazione australiana e quella europea sono sostanzialmente numeriche. I centri di detenzione offshore costano alle tasche degli australiani circa 1 miliardo di dollari l’anno, e si tratta di strutture che ospitano meno di 2,000 rifugiati. Nel solo anno corrente, da gennaio a maggio, sono arrivate nel vecchio continente 204,331 persone e oltre duemila sono morte in viaggio, cifre che evidenziano come gli sprechi della politica migratoria australiana non siano neanche lontanamente sostenibili dai fondi europei. I numeri dell’occidente restano, comunque, relativamente bassi se comparati a quelli dei paesi confinanti con la Siria: secondo le ultime stime dell’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), il Maghreb ospita attualmente 29,000 rifugiati siriani, Egitto, Iraq, Giordania e Libano 2,1 milioni e la Turchia ben 2,7 milioni.
A fronte di questi numeri, un sempre più nutrito scetticismo sulla questione da parte degli ultimi governi conservatori australiani appare quanto mai risibile, ma ancor più preoccupante è la corroborata intenzione di non modificare le linee operative correnti: in un intervista rilasciata ad Al Jazeera due settimane fa, Peter Dutton ha confermato la possibilità di ricorrere ancora al procedimento del ricollocamento in paesi terzi, in questo caso la Nuova Zelanda, e continuare così sulla scia di quella politica dei panni sporchi fuori da casa propria che ha fatto piovere sull’Australia (nei casi di Cambogia, Nauru, Manus Island in Papua Nuova Guinea) accuse di violazione dei diritti umani.
Cristiano Capuano