8 marzo e lavoro di cura

Quella che si celebra l’8 marzo è una storia collettiva, di cui oggi più che mai è necessario riscoprire le origini e celebrare il senso profondo. Un senso che vede nella lotta delle lavoratrici per migliori condizioni di lavoro e per il riconoscimento dei loro diritti una presa di coscienza sul valore del proprio ruolo nella società e sulla necessità di sovvertire un sistema che le relega in posizioni di subordinazione. Solo rivendicando il suo originario senso di lotta, che spesso si perde dietro a una dimensione più frivola e commerciale, sarà possibile trasformare le celebrazioni dell’8 marzo in una reale occasione per riflettere sulla condizione femminile, sensibilizzare l’opinione pubblica e reclamare diritti ancora negati in troppe parti del mondo.

Tra questi, il diritto a vedere riconosciuto il lavoro di cura non retribuito. Con quest’espressione si fa riferimento alle attività di gestione della casa e di cura di figli, anziani e persone non autosufficienti, che spesso ricadono in modo sproporzionato proprio sulle donne. Secondo l’ISTAT, per esempio, le donne italiane dedicano in media oltre cinque ore al giorno a queste attività, quasi il doppio degli uomini. Una disparità che, tra le altre cose, ha conseguenze dirette sulla partecipazione femminile al mondo del lavoro, e quindi sull’economia complessiva della nazione, sull’indipendenza economica delle donne, diminuendo così la possibilità di sottrarsi a eventuali situazioni di violenza domestica, e persino sul rischio di incombere in situazioni di povertà in età avanzata.

Queste sono solo alcune delle conseguenze collaterali della mancata retribuzione del lavoro di cura e della sua diseguale ripartizione tra i membri che compongono il nucleo familiare, e sono diventate ancora più evidenti durante la pandemia da COVID-19, quando molte donne hanno dovuto lasciare il lavoro o ridurre significativamente le ore lavorative per occuparsi della gestione familiare, subendo una maggiore e più intensa precarizzazione rispetto agli uomini. Questo fenomeno, che è stato definito she-cession (da recession, recessione), sottolinea bene come la crisi, ancora una volta, abbia colpito in modo più duro le donne.

Donne che spesso finiscono per sviluppare un senso di frustrazione nei confronti della propria vita, vedendo ricadere su di sé la gestione di così tante attività da non disporre più del tempo necessario per occuparsi di altro, che non sia la cura della casa o dei figli. Una frustrazione che non fa fatica a trasformarsi in rabbia verso partner e mariti che non offrono nessun contributo nello svolgimento dei lavori domestici.

Tuttavia, al netto degli stereotipi di genere che ancora impregnano le nostre società lasciandoci credere che per naturale predisposizione le donne debbano farsi carico di tutte le mansioni di cura e gli uomini preoccuparsi di portare a casa lo stipendio, occorre riconoscere come non manchino mariti e partner che pur volendo contribuire alla gestione familiare si vedono costretti a lavori logoranti, che oltre a consumare una buona dose delle loro energie li costringono a trascorrere molte ore fuori dalle mura domestiche, impedendo inevitabilmente agli stessi di dedicarsi alle faccende casalinghe o di trascorrere una più ragionevole quantità di tempo con moglie e figli.

Ecco perché il vero destinatario della rabbia a cui si accennava poc’anzi dovrebbe essere il sistema economico capitalista, che rende impossibile una divisione equa del lavoro di cura, sfruttando le persone e impedendo ai lavoratori e alle lavoratrici di avere a propria disposizione una dignitosa quantità di tempo.

Femminismo e lotta di classe dovrebbero, quindi, procedere insieme. In questo modo non solo sarebbe più facile riconoscere come le condizioni materiali incidono profondamente sulla distribuzione del lavoro di cura, ma si riuscirebbe a restituire allo stesso la rilevanza che merita. In una società capitalista in cui il valore di un’attività è spesso misurato in base alla sua retribuzione, il lavoro domestico e di cura, non essendo remunerato, viene invisibilizzato e percepito come insignificante, benché sia essenziale per la stessa riproduzione sociale.

Per riequilibrare questa disparità, è necessario andare oltre la retorica e pretendere misure concrete: servizi di welfare più accessibili, congedi parentali equamente distribuiti, orari di lavoro più flessibili. Non si tratta solo di “aiutare” le donne, ma anche di cambiare un modello economico e sociale che ne sfrutta il tempo e la vita.

E nessuna occasione si presta a simili rivendicazioni come la Giornata internazionale dei diritti delle donne, che non è e non sarà mai una celebrazione sterile, quanto un momento di lotta collettiva per ripensare il valore del lavoro di cura e ridefinire il significato stesso di giustizia sociale.

Virgilia De Cicco

Fonte immagine di copertina: Depositphotos

Virgilia De Cicco
Ecofemminista. Autocritica, tanto. Autoironica, di più. Mi piace leggere, ma non ho un genere preferito. Spazio dall'etichetta dello Svelto a Murakami, passando per S.J. Gould. Mi sto appassionando all'ecologia politica e, a quanto pare, alla scrittura. Non ho un buon senso dell'orientamento, ma mi piace pensare che "se impari la strada a memoria di certo non trovi granché. Se invece smarrisci la rotta il mondo è lì tutto per te".

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