Nel 2023 è stato pubblicato da Einaudi “Io le patate le bollo vive. Ricerca, sperimentazione animale, vita” a firma Roberto Sitia e Giuliano Grignaschi. Entrambi hanno svolto attività di ricerca e possono essere considerati autorevoli rappresentanti dell’attivismo a favore di quella che definiscono “sperimentazione animale”, al fine di offrirne una connotazione ideologicamente neutra e quindi socialmente accettabile rispetto al termine vivisezione, che fin dagli inizi è stata a significare ogni tipo di esperimenti biomedici (non solo la pratica della dissezione di animali vivi a fini di ricerca), da quelli di Paolo Mantegazza a quelli di David Ferrier. Il linguaggio ha sempre una connotazione politica, laddove l’ideologia dominante cerca di imporsi come obiettiva – diventando trasparente – attraverso l’occultamento delle parti in causa.
Il testo rappresenta un ingenuo compendio degli argomenti – in forma di straw man, ovvero tesi di partenza distorta ad arte – usati da decenni da una parte del mondo scientifico contro lə attivistə animalistə e antispecistə, volti a deformarne le posizioni teoriche, le rivendicazioni, le modalità di azione e il percorso storico, parallelamente ad una estrema edulcorazione delle proprie pratiche sui “modelli animali”. Tali prassi non hanno nulla da invidiare a quella del fisiologo Paolo Mantegazza (1831 – 1910), allorquando a proposito dei propri esperimenti sul dolore mediante vere e proprie macchine di tortura affermava di averli condotti «con molto amore e pazienza», in assoluta continuità con i ricercatori odierni, come vedremo nel corso della presente replica.
Lo stesso titolo del libro prende le mosse da alcunə attivistə animalistə che avrebbero urlato “No alla violenza, neanche contro le piante, anch’esse senzienti!”. In questo modo viene sapientemente evidenziata l’obiezione cara non al mondo animalista ma a quello specista: “e allora le piante?”, usata in un’ottica di livellamento delle istanze al ribasso.
In altre parole, se “torturiamo” le piante, in una cornice di “coerenza” dovremmo poter torturare ogni altro essere vivente (coerenza al ribasso). In realtà non è da escludere che a dibattito ci fosse anche – del tutto legittimamente – una lotta equivalente a quella storicamente rappresentata da Chico Mendes e dalla sua resistenza contro la deforestazione amazzonica in una precisa cornice politica anticapitalista.
Storicamente sappiamo che quello che viene comunemente definito “progresso” è andato via via costituendosi – al contrario – attraverso un continuo innalzamento delle asticelle (es. per diritti).
Allorquando gli autori si sforzano di prendere in considerazione la teoria antispecista propriamente detta, dimostrano di essere fermi agli anni Settanta, ovvero all’antispecismo morale di Peter Singer, al quale dobbiamo sicuramente molto, ma il cui pensiero è stato ampliato da oltre un decennio nella cornice di un antispecismo politico e intersezionale, interdisciplinare e internazionale, che mette in evidenza il legame storico tra capitalismo e specismo (lo sfruttamento sistemico molto piú di quello accidentale o collaterale), nonché i profondi nessi con l’oppressione e la discriminazione di popolazioni non occidentali, donne, persone queer, omosessuali e transgender, disabili o neurodivergenti. In questo contesto si colloca anche la riflessione sul lungo utilizzo dei manicomi quale dispositivo di controllo politico e/o ghettizzazione dei pazienti.
A oggi il movimento antispecista, italiano e internazionale, ha quindi una forte connotazione politica, antifascista e anticapitalista, nonché anticolonialista, collaborando con realtà femministe e transfemministe, con il movimento LGBTQI+, aderendo a istanze antiabiliste e ambientaliste, intrecciando reti e alleanze sui territori.
Venendo alla ricerca coatta su individui, l’ideologia antropocentrica garantisce che gli altri animali non siano soggetti a tutele come l’uomo, in quanto considerati privi – del tutto o in parte – ora di intelligenza, ora di razionalità, ora di emozioni, ora di coscienza di sé. Sappiamo invece che non è così, grazie non da ultimo agli sviluppi della moderna etologia, a conferma di quanto già nel passato a grandi linee intuito (da Plutarco in poi). Per noi etologia è studio e osservazione degli animali e del loro comportamento in libertà o comunque non in spazi sotto ogni aspetto carcerari (sottrazione mirata della libertà a scopo di ricerca).
L’eufemismo per “vivisezione”, impiegato dalla sottocultura dei laboratori, è “ricerca di base” o “ricerca su modelli”, mentre “modello” è l’eufemismo per “animali da laboratorio o cavie”. Carol J. Adams ha già dimostrato come queste prassi rispecchino il concetto di referente assente.
Il refrain posto in primo piano dagli sfruttatori degli individui di altre specie è il seguente: «La scienza rifiuta preconcetti e ideologie: offre soluzioni basate sulla sintesi di fatti e saperi diversi, tutti poggianti su dati sperimentali rigorosi e difficilmente confutabili. In questo senso è altamente democratica».
In tal modo, ovvero non esprimendosi al condizionale (e cioè “dovrebbe offrire”), il metodo scientifico viene completamente assimilato alla collocazione socioeconomica e politica della comunità scientifica accreditata di epoca in epoca, dando l’impressione che anche nei casi in cui la ricerca vada a intrecciarsi con aspetti rilevanti ai fini dell’organizzazione sociale, il progresso sia dato da un processo di continuo autoaggiornamento attraverso la sperimentazione. E questo è semplicemente falso. Teorie pseudo scientifiche accreditate (quindi ritenute all’avanguardia) per secoli dalle comunità scientifiche ufficiali, asservite al diritto del più forte, sono state quasi sempre scardinate dai rispettivi movimenti di liberazione che, precedendo la “scienza”, hanno offerto una sorta di input al fine di riesaminare teorie corrotte dal pregiudizio e da interessi coloniali e di genere. Vale per il movimento di liberazione delle persone afroamericane, per popolazioni native, per le donne, per le persone omosessuali (uscite solo in tempi recenti da manuali volti a patologizzarle) e transgender (in parte ancora patologizzate).
Vale per l’animalismo e l’antispecismo, come dimostrano le prime proteste contro la vivisezione (ad esempio quelle del 1863 a Firenze), la storia della nascita del Cruelty to Animals Act del 1876 (“Charles Darwin. Scritti sulla vivisezione”, ed. Mimesis) su iniziativa dei movimenti antivivisezionisti del tempo (e non dei ricercatori, che cercarono di limitare i danni con una controproposta) e in particolare di Frances Power Cobbe (femminista e lesbica), che si scontrò su questo tema con quelle che erano considerate le grandi menti della sua epoca (Darwin o Mantegazza ad esempio). Non dimentichiamo che persino Darwin fu contestato da femministe (es. Caroline Kennard) a lui contemporanee (per cui difficoltoso contestualizzare) per aver teorizzato l’inferiorità mentale delle donne (ripresa anche da Mantegazza in Fisiologia della donna, ”La donna fu ed è e sempre sarà meno intelligente dell’uomo”, p. 269) nell’opera L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (p.420) molto problematica ad esempio anche nei riferimenti a “malfattori”, “ipocondriaci e pazzi” (p. 114) e altre categorie con riferimento all’opportunità o meno di matrimonio e procreazione (p. 112), o nelle analisi della moralità (p. 101 -102) dei “selvaggi” (si veda anche la valutazione dell’intelletto del “l’Africano” in Mantegazza, Fisiologia del piacere, p. 50-51), in via generale con molti rinvii alle tesi di Francis Galton contenute in Hereditary Genius. Nonostante nell’Autobiografia (scritta per i figli e non destinata alla pubblicazione, avvenuta postuma) e in appunti di viaggio si espresse contro la discriminazione estrema rappresentata dalla schiavitù.
Alfred Russel Wallace in buona parte criticò tali posizioni oltre a essere un deciso antivivisezionista.
La discussione di cui sopra è oggi polarizzata da agiografie (censuranti parti del pensiero) condotte da persone di scienza e criminalizzazioni condotte da fautori del “disegno intelligente”, purtroppo ancora diffuso.
La tesi dell’inferiorità mentale delle donne fu contestata da Mary Wollstonecraft nel 1792 (e da altre studiose come Gabrielle Suchon già verso la fine del ‘600) o Annamaria Mozzoni nel 1864. Quello che quindi viene definito “spirito del tempo” spesso non è altro che lo spirito del tempo della classe dominante (i nativi americani non si considerarono mai inferiori ai sedicenti civilizzati) che costruisce la storia e la storia della cultura. Paradossalmente anche attivistə per lo sfruttamento di animali in laboratorio supportano la nostra tesi:
“(…) L’effetto in Gran Bretagna fu duplice: se da un lato i ricercatori britannici avevano più limiti di azione rispetto a quelli che lavoravano in paesi senza leggi restrittive, dall’altro la loro situazione li spingeva alla ricerca di metodi alternativi e di modelli innovativi per ottenere quanto altrimenti avrebbero cercato di ottenere ricorrendo ai modelli animali (…)”. – “Cavie?”, di Corbellini e Lalli
Nel capitolo primo del testo di Sitia e Grignaschi (p. 3) ci imbattiamo in un argomento – o, piuttosto, uno schema retorico – costruito sulla giustapposizione di due situazioni.
La prima è un episodio presentato come realmente accaduto (“siamo in una situazione simile a quella del giovane medico che disponeva di un solo respiratore per due pazienti…”), benché sia più simile a un esperimento mentale degli autori che non a un fatto vero e proprio: un medico bergamasco, durante la prima fase della pandemia da Covid-19, si vede costretto a privare dell’unico respiratore disponibile una persona anziana per cederlo a una giovane, “le cui probabilità di guarigione erano maggiori”.
La seconda è una prassi generale, quella della sperimentazione animale. Nella ricerca scientifica si sacrificano animali non umani per salvare animali umani. Gli autori utilizzano dunque il primo scenario per giustificare il secondo. Anche per il ricercatore, “come per il medico, ci sono due opzioni, che comportano entrambe un danno”. Ma diversi passaggi non tornano.
In primo luogo, l’analogia va poco oltre quanto suggerito dall’ultimo virgolettato. Se esaminiamo con un pizzico di attenzione in più le due situazioni, infatti, vediamo che nella prima ci sono due pazienti e tutto si gioca sulla scelta di chi tra i due salvare. Nella seconda, non è così: ci sono soltanto dei pazienti (quelli umani), peraltro indefiniti, e, dall’altro lato del dilemma morale, delle cavie.
Non c’è alcuna dinamica di concorrenza per una cura che si presenti come risorsa limitata (come nel caso del respiratore). Su che cosa si fonda, dunque, l’analogia presentata dagli autori? Sulla confusione fra argomenti di tipo pragmatico e argomenti legati al valore morale di individui appartenenti a categorie differenti (nel primo caso, umani di diverse età; nel secondo, animali di diverse specie).
Non è del tutto chiaro, infatti, perché il medico scelga di togliere il respiratore al paziente anziano. Se prendiamo alla lettera quanto riportato, si tratta di un calcolo utilitaristico: il paziente giovane avrebbe più probabilità di salvarsi. La struttura retorica del ragionamento sembra però alludere al fatto che in qualche modo il giovane sarebbe più “degno” di vivere dell’anziano.
Ad ogni modo, possiamo esaminare separatamente i due casi. Se il medico sceglie in base a un calcolo di ottimizzazione dell’uso del respiratore, questo calcolo dovrebbe funzionare anche per la sperimentazione animale. Lo schema, infatti, è: se il medico ha (tragicamente, ma “giustamente”) scelto il paziente giovane, allora siamo autorizzati a fare lo stesso quando abbiamo di fronte dei malati umani e delle cavie non umane.
Ma in questo secondo caso il calcolo non funziona, perché la situazione è ben differente, dato che per le cavie non è in gioco la possibilità di salvarsi. Se invece prendessimo per buono il “non detto” degli autori, secondo cui esiste una qualche superiorità morale del soggetto che viene preferito rispetto all’altro, potremmo applicarlo al caso della “sperimentazione animale”, a patto di accettare una cornice morale contraddistinta da una preferenza specista (anche moderata). Scegliamo di salvare vite umane sacrificando vite animali perché crediamo che queste ultime valgono meno. Questo potrebbe essere accettabile per la maggior parte delle persone, ma siamo nel campo della tautologia. L’argomento può dimostrare che questo è un buon modo di procedere, se funziona nel primo caso.
In effetti, se dicessimo che è corretto dare l’unico respiratore all’umano giovane perché la sua vita vale di più, potremmo credere che “a maggior ragione” è corretto sacrificare un topo per salvare un umano. Ma è evidente che il presupposto è a dir poco problematico, e infatti non è ammesso apertamente nel discorso pubblico (anche se princìpi di tipo abilista ed etaista, nei fatti, influenzano le politiche sanitarie). Non a caso, gli autori si guardano bene dal dire che il medico ha scelto di privilegiare la vita che ha maggior valore (morale, esistenziale, produttivo…). Saremmo pericolosamente vicini a logiche eugenetiche, evidentemente.
Un ulteriore significativo problema del paragone è che viene affiancato un caso singolo (emergenziale) e una situazione strutturale, cioè la pratica scientifica di sperimentare dei farmaci ad uso umano su altri animali non consenzienti.
È vero che il caso del respiratore viene presentato come un caso non isolato: i medici avrebbero fatto in continuazione scelte di questo tipo. Ma si tratta pur sempre di casi singoli, d’emergenza, appunto. Non a caso, parliamo di casi nati dall’intuito, dalle convinzioni personali e dal senso morale dei medici e degli infermieri, non da direttive strutturali o protocolli precisi. Nell’urgenza e nella scarsità di risorse estrema che contraddistinguono l’episodio del respiratore – ancora: un episodio che proprio per questo assomiglia a un esperimento mentale – possono essere fatte scelte imperfette o crudeli; nel caso della “sperimentazione animale”, nulla di tutto ciò è vero, perché si tratta di politiche progettate a monte, validate, finanziate a lungo termine, e così via. Questa differenza fra i due casi è fondamentale.
Il dibattito sulla “sperimentazione animale”, a ben vedere, non riguarda – come viene presentato in molti casi – situazioni limite, in cui ci si trova a scegliere, ad esempio, fra la vita di un bambino umano e quella di un topo. Tali situazioni, peraltro, sono rarissime, se non inesistenti, e possono al massimo essere utilizzate come esperimenti mentali.
La discussione sulla liceità o meno dell’uso delle cavie non umane, come del resto quella sulla liceità dell’uso di cavie umane in passato, ha come oggetto una serie di scelte progettuali, di ampio respiro, tutt’altro che emergenziali. Scelte collettive e, in ultima analisi, politiche: quali protocolli utilizzare per ricercare le cure per determinate malattie, in che modo testare i farmaci, quali metodologie e quali linee di ricerca finanziare, quali ammettere come finanziabili e quali rendere illegali o, quantomeno, disincentivare, e così via. Una possibilità, in questo dibattito, è ammettere che l’interesse dei non umani è tale da non prevedere che si possa sperimentare su di loro, cercando altre soluzioni, utilizzando i metodi alternativi già esistenti e modificando le politiche di finanziamento attuali. Se ci pensiamo, in passato era lecito sperimentare su cavie umane appartenenti a categorie considerate inferiori, come le donne afroamericane agli albori della ginecologia moderna. Oggi questo non è più possibile (anche se in parte la sperimentazione su classi marginalizzate è praticata in modo illecito o comunque non apertamente rivendicato): eppure, sarebbe utile dal punto di vista strettamente scientifico, a vantaggio delle classi privilegiate.
Alcune femministe antispeciste, come Carol Adams, Josephine Donovan, Deborah Slicer e, qui in Italia, Agnese Pignataro, hanno suggerito di affrontare le controversie relative al trattamento degli animali non umani e, in particolare, alla sperimentazione scientifica, adottando un paradigma alternativo a quello della filosofia morale accademica mainstream che, pure, nelle sue versioni utilitaristica (Peter Singer) e giusnaturalistica (Tom Regan) ha fornito alla compagine antispecista importanti strumenti per sostenere i diritti animali. Queste femministe caldeggiano un approccio di etica contestuale, non astratta, modellata sull’etica del “care” di Carol Gilligan e Joan Tronto. Adottando tale approccio, salta all’occhio come la prima situazione descritta dai nostri due autori sia un’astrazione nell’astrazione: non solo il caso presentato è tanto “puro” nei suoi elementi da sembrare un’invenzione, ma a una più attenta riflessione risulta depurato di una serie di elementi che dovremmo comunque considerare. Il respiratore, infatti, è l’oggetto su cui si concentrano tutti i calcoli del caso, e l’età dei due pazienti sembra essere l’unico parametro. In realtà, possiamo presumere che il medico abbia preso in considerazione anche altri parametri, oltre all’età, e possiamo immaginare che altri strumenti di cura siano intervenuti nella valutazione (per esempio, la risposta a farmaci sintomatici di vario tipo, le possibilità di trasferimento in altre strutture, ecc.). In generale, situazioni come questa, presentate come scenari da tertium non datur (o si salva il giovane o si salva l’anziano), presentano invece diverse sfumature, e più di due possibilità, come nel classico quesito di Carol Gilligan, in cui si chiede se un tale Heinz, impossibilitato a comprare un farmaco necessario per curare la moglie gravemente malata, debba o no rubarlo. E, guarda caso, alla prova dei fatti, è la veridicità del resoconto stesso che non è così solida come sembra suggerire il tono assertivo con cui gli autori lo introducono. Se andiamo a consultare la fonte citata (un articolo del giornalista Marco Imarisio del 2020 – “State a casa”, Corriere della sera), l’anestesista rianimatore intervistato racconta delle drammatiche scelte terapeutiche che lui e la sua equipe hanno dovuto affrontare, definendo un quadro molto più complesso e, appunto, contestuale. Lo fa in modo dubitativo, auspicando soluzioni in grado di evitare la necessità di scelte così dolorose e inique, pur senza affrontare esplicitamente il nodo fondamentale della scarsità delle risorse sanitarie causate da politiche scellerate, un elemento che oggi è evidente. Ma, in ogni caso, non riporta alcun caso così “netto” come quello richiamato da Grignaschi e Sitia. Anzi, i casi che descrive si caratterizzano proprio per la complessità e la ricchezza degli elementi in gioco, e non esistono regole scritte. L’intervistato sottolinea come la valutazione sia fatta caso per caso (in modo analogo, anche se più drammatico, a quanto avviene in periodi non pandemici, dice), valutando diversi fattori. Sembra insomma improbabile che possa essere avvenuto un episodio come quello descritto dagli autori e, soprattutto, che possa essersi verificato in quei termini. Del tutto inverosimile, poi, è che tale episodio si possa essere ripetuto al punto da divenire prassi consolidata. Grignaschi e Sitia sembrano insomma costruire in modo del tutto artificioso uno scenario che riecheggia quelli evocati tradizionalmente dai movimenti “anti-animalisti”: vuoi salvare il topo o la bambina? (o, nella versione più subdola, “il topo o tua figlia?”).
Una mossa disonesta, indubbiamente. L’esperimento mentale del topo e della bambina è facilmente smontabile, mostrando, per esempio, che la sua stessa formulazione è tutt’altro che neutra (perché opporre un generico topo a nostra figlia e non il nostro cane a un generico umano – magari anziano, aggiungeremmo noi dopo aver letto la storiella del medico bergamasco?) e al tempo stesso è una pessima descrizione della realtà della sperimentazione animale, in cui non vengono mai opposti puntualmente una singola cavia e un singolo umano. Senza contare che della prima non sappiamo mai nulla, tranne la specie (topo, coniglio, maiale), non conosciamo il carattere, la storia, le relazioni, i desideri, i progetti di vita; mentre del secondo ci vengono detti vita morte e miracoli ottenendo il prevedibile effetto di farci empatizzare. Per questi motivi, i nostri autori spostano l’artificiosità sul primo termine di paragone, quello delle dolorose ma necessarie scelte fra pazienti umani. Sull’onda dell’emergenza – che come ben sappiamo è un ottimo motivo per farci accettare praticamente qualsiasi misura sanitaria, legislativa o di ordine pubblico – ci viene fatta in qualche modo accettare una discutibilissima prassi. E a quel punto il percorso è tutto in discesa: se lo facciamo con i vecchietti, perché non farlo con gli animali?
In questo senso la risposta a “Uccideresti l’uomo grasso?” posta da David Edmonds è decisamente un NO.
Nel capitolo terzo leggiamo: “specie […] quella umana è anche (fino a prova contraria) l’unica specie sul pianeta dotata di autocoscienza e dunque capace di identificare e discutere le contraddizioni etiche del suo agire” e ancora nel capitolo quarto: “senzienza […] qualche incertezza sorge in chi scrive nei confronti di polpi, uccelli e pesci”.
In realtà gli odierni sostenitori dello sfruttamento animale hanno sostituito alla vecchia anima il concetto di coscienza, autocoscienza e intelligenza per il medesimo fine, ovvero creare un salto incolmabile tra due specie, la nostra e quella di tutti gli altri, come del resto già accaduto tra umani. A parte la problematicità di porre le caratteristiche umane quale metro di misura del “Creato” chiediamoci: coscienza di sé, cosa significa avere coscienza di sé?
Avere coscienza di sé significa avere conoscenza di sé, dei propri stati, del proprio corpo, del movimento, ma anche delle proprie preferenze, delle proprie scelte, delle proprie decisioni. Significa non reagire sul mondo in un ping-pong di stimolo/ risposta, azione/ reazione, ma agire cognitivamente e socio-cognitivamente nel mondo.
In questo senso ogni animale nasce cognitivo, ovvero in possesso di una conoscenza di base predisposta a conoscere, cioè una conoscenza per conoscere sé stesso e il mondo, non quindi come un foglio bianco su cui scrivere, ma come un foglio già scritto dove inserire, esperienza dopo esperienze, propri pensieri, riflessioni, idee e strategie come soggettività di mondo. Legare il concetto di coscienza a quello di cognizione permette di rendere il primo meno astratto, meno esercizio filosofico fine a sé, permette in breve di riconoscerlo non solo come astrazioni appunto, che spesso risultano in proiezioni, ma come osservazione di reali comportamenti. Questo non per negare i fenomeni invisibili, come quelli mentali, degli stati, delle sensazioni, ma per valorizzare quelli visibili, quelli delle espressioni, delle scelte, delle decisioni.
Su questa base una formica ha coscienza di sé? Certamente. E la esprime attraverso la mappatura di un mondo esterno, il territorio, il formicaio, la ricerca di risorse, il movimento con e delle altre, ma anche di un mondo interno, il suo, con il movimento, l’equilibrio nel trasportare un peso, in definitiva con la conoscenza del proprio corpo, dei propri limiti, ma anche delle proprie possibilità. Tutto questo in contatto con la propria soggettività che non la elegge ad una mera rappresentante di specie, ma di coscienza, coscienza di quella formica, non di un’altra. Anche il concetto di soggettività riporta a quello di coscienza, un soggetto che non è mero individuo, ma soggetto infatti, agente attivo nel proprio contesto di riferimento e tutto si può dire tranne che una formica non sia un agente attivo, mettendo in discussione quella visione un po’ macchiettistica, che vede un formicaio di formiche come un unico organismo, schiacciando di fatto la soggettività di ogni formica, che è invece facilmente riconoscibile anche ad un occhio non esperto. Ma quindi, da una prospettiva biologica, ci può essere una gerarchia delle coscienze o una barriera tra chi ce l’ha e chi no? No, se guardiamo le cose attraverso una logica biologico-evoluzionista del mondo animale, includendo ovviamente anche gli umani, proprio no. Potremmo dire invece che la coscienza di sé nasce con le prime forme di vita, miliardi di anni fa. Un dinosauro aveva coscienza di sé? Senza dubbio. La presenza di una coscienza la si può infatti riconoscere dalle tracce fossili che hanno lasciato, dai loro movimenti in vita, dalle esperienze che hanno vissuto.
Pensare quindi che è concesso, sì o no, usare, anzi abusare, gli animali diversi da quelli umani, in base alla presenza di una coscienza è una strada scientificamente inappropriata, oltre che eticamente inaccettabile, anche qualora tutto quello prima descritto non fosse vero.
In questa sede risulta arduo analizzare ogni luogo comune e artifizio retorico del testo preso in esame e ci soffermeremo solo su alcuni di essi proponendoci una più ampia trattazione in una pubblicazione dedicata.
“Vivisezione (…) si può dunque applicare a dentisti, chirurghi (…), parrucchieri ed estetisti (…)”: risulta non chiaro in quale modo e misura clienti di uno studio estetico vengano sottoposti in modo coatto a pratiche dolorose minanti la propria salute e incolumità. In logica si parla di “horse laugh” di fronte a un pubblico che si presuppone incapace di intendere e volere. Trattasi di una fallacia volta a presentare l’argomento della controparte in chiave ridicola, banalizzandola o distorcendola, facendo leva sull’emotività e la facile risata del pubblico di riferimento.
“Difficile organizzare un tribunale con una equa rappresentanza di lupi e agnelli: saremo quindi di nuovo noi umani a interrogarci e decidere per loro (…)” evitiamo di definire doveri e diritti degli animali con cui viviamo (…)”. La dimensione politica dell’antispecismo non prende in considerazione l’istinto alla sopravvivenza di ogni individuo animale, uomo compreso, bensì lo sfruttamento sistemico operato da chi detiene il potere, sfruttamento costituitosi storicamente e non naturalmente (leone e gazzella) anche tra umani attraverso società capitaliste, colonialiste e patriarcali. Tenendo presente che non ci poniamo quali salvatrici, ma quali complici e alleate della resistenza animale.
Su “cavallette (…), parassiti intestinali (…) batterio” rimandiamo a quanto sopra e al concetto di coerenza o etica al ribasso.
Sulla irruzione e liberazione nei laboratori di Farmacologia, dove alle cavie sarebbe stato offerto “vitto e calore” in una ricostruzione dei carcerieri del tutto fantasiosa, riportiamo le parole di un attivista: “Stavamo documentando e soprattutto portando all’esterno le immagini di quella brutale e ordinaria normalità, lo squallore delle gabbie, la disperazione dei prigionieri, i dati sconvolgenti riportati sul registro di carico-scarico (ricordo con orrore quelli che indicavano come venissero buttati, ogni pochi giorni, circa 34 kg/ 37 kg di topi morti alla volta) ed i commenti sui libri consegna (in particolare il fascicolo “Destinazione Heaven” in cui si chiedevano che fine avessero fatto gli animali spariti dallo stabulario e non trovati più nelle gabbie (…)”. I ricercatori ricorrono quindi alla stessa retorica di “cura e amore” degli allevatori che mandano individui al mattatoio dopo una breve non vita di sfruttamento. Inoltre contestiamo anche la “derattizzazione” quale metodo cruento di sopperire all’inquinamento ambientale umano. “Inoltre si parla ormai sempre più frequentemente di ‘mouse clinic’ invece che di stabulari proprio a indicare la sofisticatissima componente tecnologica che vi si utilizza”: trattasi con tutta evidenza dell’ennesima edulcorazione dei ricercatori volta a occultare la sperimentazione coatta e l’oppressione delle parti in causa.
Per concludere:“… If you’re sincerely interested in ending racism, you must recognize racism’s roots in our relationships with, and constructions of, “the place of the animal.” And if you’re sincerely interested in ending nonhuman animal exploitation, you must educate yourself on the connections between the social constructions of whiteness, racialization, racialization, and racisms (as well as sexisms, nationalisms, etc.), and animal abuse. It’s simple: it’s all connected.” (Breeze Harper in “Sister, species, women, animals and social justice”, edited by Lisa Kemmerer).
di Silvia Molè – Parte in Causa, Marco Reggio, Francesco De Giorgio, Barbara Balsamo, Giulia Heliaha Di Loreto
Bibliografia generale:
“Charles Darwin. Sulla Vivisezione. I documenti di un dibattito”, a cura di Alessio Cazzaniga e Fabio Esposito, Edizioni Mimesis
“Liberazione animale”, di Peter Singer, edizioni NET
“Liberazione Totale”, di Steven Best, Edizioni Ortica
“Bestie da Soma” di Sunaura Taylor, Edizioni degli animali
“Canti della Nazione Gorilla” di Dawn Prince-Hughes, Edizioni degli animali
“Afro-ismo” di Aph e Syl Ko, edizioni Vanda
“Carne da macello. La politica sessuale della carne” di Carol Adams, edizioni Vanda “Capitale Animale”, di Nicole Shukin, Tamu edizioni
“Liberazioni”, rivista di critica antispecista
“Musi e muse”, rivista femminista antispecista
“Inferiori. Come la scienza ha penalizzato le donne”, di Angela Saini, Edizioni HarperCollins
“La donna e i suoi rapporti sociali”, Annamaria Mozzoni, Passerino editore
“Paura del pianeta animale. La storia nascosta della resistenza animale”, di Jason Hribal
“Animali in rivolta”, di Sarat Colling, edizioni Mimesis
Resistenza animale, https://resistenzanimale.noblogs.org/
“Sono razzista, ma sto cercando di smettere”, di Guido Barbujani e Pietro Chieli, Editori Laterza
“Medical Apartheid”, di Harriet A. Washington, edizioni Harlem Moon, Broadway Books, NewYork
“Medical Bondage: Race, Gender, and the Origins of American Gynecology”, di Deirdre Cooper Owens, University of Georgia Press, Athens 2017
“Intelligenza e pregiudizio” di Stephen Jay Gould, edizioni Il Saggiatore
“ Superiori”, di Angela Saini, edizioni Harper Collins
“L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”, di Charles Darwin, New Compton editori, 2018
“Autobiografia”, Charles Darwin, edizioni Einaudi
“Zoo umani”, di Blanchard, Bancel, Boetsch, Deroo, edizioni Ombre Corte.
“The science and politics of racial research”, William Tucker, University of Ilinois Press Urbana and Chicago
“Fisiologia della donna”, di Paolo Mantegazza, Casa editrice Bietti Milano, edizione del 1932, p.269
“Fisiologia del piacere”, di Paolo Mantegazza, Milano Tip. Bernardoni di C. Rebeschini E C., 1891. P .50
“Fisiologia del dolore”, di Paolo Mantegazza
“Cavie?” di Gilberto Corbellini, Chiara Lalli, edizioni Il Mulino
“Storia di R7, una coniglia. Sperimentazione sugli animali. Perchè no” a cura di Oltre La Specie
“Ignoranza” di Peter Burke, Raffaello Cortina edizioni
“Human Selection”, Alfred Russel Wallace, Perfect Library
“Uccideresti l’uomo grasso?” di David Edmonds, Raffaello Cortina editore.
“Nel nome dell’animalità” di Francesco De Giorgio, L’età dell’acquario editore.
“La donna e i suoi rapporti sociali”, Annamaria Mozzoni, Passerino Editore “Rivendicazione dei diritti della donna”, Mary Wollstonecraft
“Ascoltando voci diverse”, di Agnese Pignataro, in “Diogene”, n. 22, marzo-maggio 2011, pp. 40-43 ( https://www.musiemuse.org/2012/06/28/ascoltando-voci-diverse-a-pignataro/ )
“Con voce di donna. Etica e formazione della personalità”, di Carol Gilligan, Feltrinelli, Milano, 1987
“Opporsi alla sperimentazione animale: Una posizione incoerente?”, di Agnese Pignataro, https://www.musiemuse.org/2012/10/19/opporsi-alla-sperimentazione-animale-una-posizione-incoerente/