Un presidente si fa approvare dalla maggioranza parlamentare l’invio di un contingente militare in un altro Stato sovrano, allo scopo di fare da arbitro del sanguinoso conflitto interno a quel Paese e di stabilirvi un ordine utile agli interessi propri e della classe dirigente che lo appoggia. Se i protagonisti di questo paradigma non fossero la Turchia, il suo Capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, e la Libia, parrebbe di trovarsi di fronte all’ennesimo “colpo di testa” imperialista all’americana, in pieno stile Bush o Trump.
Erdogan e la politica di Potenza
Stavolta, invece, la strategia volta a (de)stabilizzare un fragile contesto geopolitico, in particolare quello della Libia “beneficiaria” dell’intervento armato deciso unilateralmente dalla Turchia, appartiene proprio al controverso leader di Ankara. Erdogan da mesi sta tentando un approccio di forza alla politica mediterranea e mediorientale, nonostante gli altolà della NATO e delle sue deboli Potenze capofila, Francia in testa. Lo scopo è quello di acquisire una posizione dominante a medio – lungo termine nel più vasto contesto continentale.
Dopo aver raso al suolo le libertà democratiche e costituzionali in Turchia, Erdogan punta infatti da tempo a un allargamento oltre confine della sua politica “padronale”: impossibile dimenticare l’intervento arbitrario contro i curdi in Siria, che rischia di resuscitare il cadavere dell’ISIS e, al contempo, di offrire alla Turchia l’opportunità di rivestire un ruolo centrale nella gestione degli equilibri dell’Asia minore.
Ora che l’Iran è in crisi, tra sanzioni e perdita di peso internazionale a causa delle profonde e scomposte fratture interne, oltre che della continua pressione statunitense (con Trump che nel frattempo sembra ignorare i rischi della discutibile politica di Erdogan, sia nei confronti della stabilità mediorientale che della credibilità complessiva della NATO), la Turchia ha capito che può assumere un ruolo geopolitico di rilevanza assoluta. Mancava soltanto lo scenario definitivo in cui sperimentare la politica di Potenza di Erdogan. Questo palcoscenico, oggi, è definito: si tratta proprio della Libia.
Le macerie della Libia e gli interessi della Turchia
Il Paese nordafricano è dilaniato da anni da un sanguinoso conflitto civile. L’esecutivo riconosciuto dall’ONU, guidato da Sarraj, è in crisi cronica, praticamente schiacciato nella sola regione di Tripoli dalle truppe dell’ormai famigerato generale Haftar, leader della fazione ribelle con base nella Cirenaica. Per non parlare, poi, della minaccia continua portata dalle tribù del sud, apparentemente non allineate; e facendo finta di ignorare, per di più, i miliziani dell’ISIS ancora attivi sul territorio, già ben noti per l’efferatezza di alcune azioni. È in questo contesto disastrato che Erdogan ha inserito le aspirazioni imperialiste della sua Turchia, passo dopo passo, prima con le armi del diritto internazionale e solo dopo con quelle da fuoco, schierandosi dalla parte del governo Sarraj.
Appoggiare la causa di un “perdente”, finora, come Sarraj potrebbe portare alcuni vantaggi alla Turchia: in primo luogo, si tratterebbe di fornire aiuto a un soggetto politico riconosciuto ufficialmente dalla comunità internazionale. In questo modo, lo sbilanciamento di Erdogan a suo favore pare rivestito di maggiore legittimità. In secondo luogo, appoggiare Sarraj equivale a rendere più debole la posizione europea, che ancora tenta di barcamenarsi alla ricerca di un’impossibile, almeno ad oggi, conciliazione con Haftar: con Paesi come l’Italia sempre trincerati dietro l’indecisione mascherata da ecumenica ricerca di “mediazione”, è più facile inserirsi in un contesto in cui obiettivamente nessuno sa che mossa fare, esercitando una condotta più decisa e aggressiva.
Inoltre, non bisogna trascurare un altro dato: il rivale di Sarraj, il generale Haftar, riceve supporto logistico e militare da parte dell’attuale competitor della Turchia di Erdogan sullo scacchiere geopolitico mediorientale, la Russia. Il presidente turco, con l’Europa immobile, non può lasciare che sia Putin a mettere indisturbato le mani sulla Libia, così come non gli ha consentito di farlo in Siria. Se Sarraj dovesse vincere la guerra, questo si tradurrebbe in un sicuro vantaggio della stessa Turchia nei confronti di Mosca e in un sensibile avanzamento di Ankara nel “ranking” delle Potenze emergenti.
La strategia di Erdogan, tra diplomazia e armi
Lasciamo dunque da parte tutti i discorsi vuotamente pittoreschi e un po’ spocchiosi, proprio all’europea, sulla volontà di Erdogan di farsi sultano del Terzo Millennio e di ricostituire l’Impero ottomano un pezzo alla volta, dalla Siria alla Libia: qui si tratta invece di una vera e propria strategia di moderna real politik, attuata secondo calcoli bilanciati e mosse predeterminate, in cui l’invio del contingente in Libia si inserisce solo come ultima tessera del mosaico. Non si può dimenticare, infatti, l’accordo chiuso a dicembre tra Turchia e Libia per la ridefinizione dei confini marittimi orientali e la reciproca cooperazione militare, che ha consentito a Erdogan di accaparrarsi un vero e proprio corridoio nel Mediterraneo orientale, sotto il naso di Paesi tradizionalmente vanagloriosi sul proprio ruolo di “padroni” del Mare Nostrum, come l’Italia.
Il lavoro diplomatico ai fianchi dell’esecutivo Sarraj, che mira persino a ottenere la realizzazione di una base navale turca sulle coste libiche, sta dando adesso i suoi frutti. In questo contesto, l’invio di truppe pronte al combattimento, con l’apertura di un secondo fronte bellico in pochi mesi, è davvero poco sorprendente. Allo stesso modo, le dichiarazioni di Erdogan che promettono un ruolo pacificatore delle forze turche in Libia sa solo di film già visto, quello della retorica statunitense “esportatrice di democrazia” e di pax augustea.
Un’ultima domanda sorge però spontanea: come reagirà l’opinione pubblica turca a questa nuova iniziativa imperialista di Erdogan? Infatti, com’è stato notato, la decisione sull’invio delle truppe in Libia è stata adottata dal Parlamento con l’appoggio delle sole forze di maggioranza, diversamente da quanto accaduto nel caso dell’aggressione ai curdi in Siria. Fonti vicine all’opposizione interna parlano di un Erdogan “isolato” in Turchia sul tema libico: in sostanza, il presidente avrebbe cercato di giocare una carta pericolosa, non necessariamente in grado di garantire ulteriori ritorni di popolarità e con la prospettiva persino di debilitarne l’immagine.
Considerata la gestione padronale della Turchia da parte di Erdogan, le valutazioni sulle conseguenze politiche della strategia in Libia appaiono comunque premature. Bisognerà osservare, infatti, quale sarà l’effettivo impegno delle truppe di Ankara in Libia (se e come saranno ingaggiate in combattimento, con quante eventuali perdite) o quali potranno essere i ritorni certi, in termini di influenza strategica ed economica, che le operazioni nordafricane potranno fornire.
Di sicuro c’è, per ora, che Erdogan non incontra ostacoli tra le Potenze dell’Occidente e questo, per il presidente turco, è già un grande vantaggio: se infatti passa quasi inosservato che la Turchia non riesca ad acquisire alleati con facilità, con Algeria e Tunisia che hanno gentilmente declinato l’invito ad associarsi all’impresa imperialista in Libia, fa invece molto più rumore il silenzio degli USA e la colpevole indecisione di UE, Francia, Germania e Italia.
Ludovico Maremonti