Anche quest’anno le vendite annuali del Black Friday – caduto il 25 novembre, ma dilatato lungo un’intera settimana di offerte stracciate e prezzi al ribasso – ci impongono la necessità di riflettere su quanto abbiamo acquistato. Una riflessione che è necessario declinare sia in termini monetari che in termini ambientali. Perché se l’incidenza dello shopping sfrenato sul portafogli è faccenda individuale, i costi occulti che il venerdì nero ha sul pianeta sono, invece, faccenda collettiva. Inquinamento, rifiuti ed emissioni rappresentano infatti l’altro lato della medaglia con cui bisogna confrontarsi nei giorni dedicati agli sconti prenatalizi. Ma se per una serie di prodotti ancora si aspetta il Black Friday per poter usufruire, appunto, di offerte e promozioni, il fast fashion rende disponibili capi di abbigliamento a prezzi stracciati per tutto l’anno.
Il fast fashion e le nuove abitudini dei consumatori
Il modello commerciale del fast fashion è noto per gli enormi volumi di abiti prodotti, per la velocità con cui vengono immessi sul mercato e per il suo impatto ambientale e sociale fuori misura. Ma la velocità che caratterizza il fast fashion non riguarda esclusivamente la filiera produttiva. È infatti l’intero ciclo di vita del prodotto a essere soggetto a un timing ridotto: un capo di abbigliamento fast fashion si considera datato già qualche mese dopo il suo acquisto. Proprio questa dinamica, unitamente ai prezzi medio bassi tipici di questi articoli, fa sì che le persone acquistino il 60% in più di vestiti, indossandoli, però, per la metà del tempo. Secondo la Fondazione Ellen Macarthur, ogni secondo un camion di tessuti abbandonati viene gettato in discarica oppure incenerito. E come ha recentemente rivelato Greenpeace Germania, l’enorme flusso di rifiuti tessili inquinanti ha come destinazione finale i Paesi del Sud globale.
Sono molte, dunque, le ombre che avvolgono questo modello commerciale e per quanto sia difficile da immaginare esso può ancora peggiorare. L’ultra fast fashion – fenomeno promosso dal marchio cinese di moda online SHEIN – è infatti riuscito a portare il fast fashion ben oltre l’estremo. Questa sua evoluzione costringe i fornitori a consegne a rotta di collo, con ordini realizzati in Cina entro 3-7 giorni e poi distribuiti, tramite trasporto aereo, in ogni angolo del mondo. Un duplice sfruttamento sorregge, quindi, questo modello di business che non ha a cuore né l’ambiente né le persone, come dimostrato – tra le altre cose – dal largo impiego di sostanze chimiche pericolose presenti lungo tutta la catena di approvvigionamento. È questo quanto emerso dall’indagine condotta da Greenpeace Germania, che dopo aver acquistato prodotti SHEIN in Italia, Austria, Germania, Spagna e Svizzera li ha fatti analizzare in laboratorio per verificare quali sostanze chimiche contengono i vestiti usa e getta del colosso cinese.
L’indagine Greenpeace sugli abiti ultra fast fashion a marchio SHEIN
Dei 47 prodotti fatti analizzare da Greenpeace in laboratori indipendenti, 7 contengono sostanze chimiche pericolose in concentrazioni di molto superiori ai limiti stabiliti dall’Unione Europea. I prodotti distribuiti in Europa, infatti, per essere a norma di legge devono uniformarsi a quanto prescritto dal regolamento REACH, che stabilisce – in modo assai rigoroso – i valori limite di sostanze chimiche presenti nei tessuti di capi d’abbigliamento, accessori e calzature affinché gli stessi non risultino pericolosi per la salute umana. Ciò nonostante, i risultati dell’indagine hanno restituito una situazione ben lontana dalla regolarità: il 96% dei prodotti fast fashion analizzati, infatti, contiene almeno una sostanza chimica pericolosa. E come dichiarato da Giuseppe Ungheresi, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, «Chi paga il prezzo più alto della dipendenza chimica di SHEIN sono i lavoratori che operano nelle filiere produttive del colosso cinese e sono esposti a seri rischi sanitari, ma anche le popolazioni che vivono in prossimità dei siti produttivi».
Come se non bastasse, poi, i bassi salari, le penalità in caso di errori o di mancato raggiungimento degli obiettivi, l’assenza di contratti di lavoro o di contributi previdenziali sono tutti fattori che concorrono ad aumentare il livello di pressione e sfruttamento dei lavoratori, costretti a prestazioni e orari di lavoro molto lunghi da svolgere in condizioni igienico sanitarie al di sotto di ogni ragionevole standard. Ma oltre a non essere compatibile con il rispetto dei diritti umani, l’ultra fast fashion contribuisce anche ad aggravare e accelerare la crisi climatica. La maggior parte dei prodotti SHEIN si compone, infatti, di materiali plastici e, non a caso, l’industria della moda consuma ogni anno una quantità di petrolio pari a quella dell’intera Spagna. Una dipendenza che sta perfino alimentando la guerra in Ucraina, dal momento che i due principali fornitori di poliestere si riforniscono di petrolio proprio dalla Russia. Inoltre, negli ultimi anni, l’industria tessile è stata anche identificata come una delle principali responsabili dell’immissione di plastica negli oceani, un fenomeno sempre più preoccupante a causa delle implicazioni negative per l’ambiente e la salute.
Fili che durano
Da qui, la necessità di un cambio di paradigma che faccia di sostenibilità e circolarità le vere tendenze alla moda da seguire. In occasione della COP27, tenutasi lo scorso novembre in Egitto, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) e l’organizzazione no-profit Global Fashion Agenda (GFA) hanno organizzato un evento sul tema. Nato dalla consapevolezza della complessa matrice di questioni ambientali e sociali che si colloca alla base del settore della moda, l’evento in questione ha visto la partecipazione dei leader del settore, riunitisi con l’obiettivo di discutere i percorsi da seguire per promuovere un’economia circolare nell’industria della moda.
Pertanto, per contrastare il fast fashion e ridurre rifiuti e inquinamento a favore di pratiche più sostenibili come riutilizzo e riciclo, UNEP e GFA hanno avviato un processo di consultazione che coinvolge i protagonisti del settore tessile. L’obiettivo è quello di definire congiuntamente un percorso che sia in grado di trasformare l’industria della moda in un’industria net-positive, capace di restituire al mondo molto più di quanto preleva. L’UNEP, inoltre, è impegnato nella realizzazione di una tabella di marcia verso la sostenibilità e la circolarità nella catena del valore tessile e sta anche lavorando per cambiare la narrazione del settore, esaminando il ruolo dei consumatori e realizzando una linea guida per la comunicazione della moda sostenibile. In quest’ottica, è stata promossa la collaborazione con la poeta keniota Beatrice Kariuki che – per far luce su quei settori industriali fortemente impattanti (incluso, appunto, quello tessile), in cui i consumatori possono fare la differenza – ha affermato:
«Abbiamo bisogno di industrie circolari in cui le vecchie cose diventano nuove. Meno imballaggi, più riutilizzo. Fili che durano».
Virgilia De Cicco