Ahmet Altan Turchia Erdogan
(Foto AFP)

Era il 2017 quando, comprando una rivista, vi trovai in allegato un opuscoletto. Il titolo, piuttosto singolare, era Ritratto dell’atto di accusa come pornografia giudiziaria. Ripresi a leggere la rivista e accantonai quel libricino. Lo recuperai solo tempo dopo, in un periodo di penuria di letture e di nuovo incuriosito dal titolo. L’autore era Ahmet Altan. Aprendolo, mi trovai davanti una delle letture più stimolanti che abbia mai incontrato, sia per forma che per contenuto. E mentre per Altan, appena dieci giorni dopo la sua scarcerazione, si profila un nuovo mandato d’arresto, ho ritenuto utile ripartire da quell’opuscoletto per riannodare i fili di una storia che dice molto sullo stato della democrazia nella Turchia di Erdogan.

I motivi dell’arresto di Ahmet Altan

Nelle prime pagine Ahmet Altan dà una chiara quanto paradossale definizione dei motivi della sua accusa di “golpismo” per i fatti del 15 luglio 2016: «Si ritiene che noi conoscessimo gli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di stato». Una motivazione simile a quella che in tutta la Turchia ha portato all’incarcerazione di oltre 160 giornalisti e intellettuali, e al licenziamento di migliaia di accademici, proprio come reazione al fallito golpe.

Erdogan Turchia golpe
Il presidente Erdogan parla alla nazione attraverso FaceTime durante il fallito golpe del 2016: una delle immagini simbolo di quell’evento. (Foto CNN)

Ma le assurdità non finiscono qui. Non solo Altan è incriminato a causa di pensieri liberamente espressi in articoli o trasmissioni televisive, un abominio in qualsiasi Stato di diritto che si rispetti (l’atto di accusa li incrimina per «aver minacciato e usato contro il presidente Erdogan una retorica oltraggiosa» o perché «Gli imputati sostengono che questo governo perderà presto il potere»). Ma le accuse non sono neanche coerenti temporalmente. Ad esempio, lo scrittore è accusato per articoli usciti sul suo quotidiano, Taraf, riguardo alle proteste di Gezi Park del 2013; ma Ahmet Altan aveva dato le sue dimissioni da Taraf un anno prima, nel 2012.

Ripercorrere la storia della Turchia, fino a Erdogan

Una delle peculiarità di questo scritto, però, è quella di fornire uno spaccato fedelissimo della società turca e della sua storia, attraverso gli avvenimenti più rilevanti dell’epoca moderna. Abbiamo già parlato di Gezi Park: nel 2013 Erdogan era ancora Primo Ministro (sarebbe diventato Presidente l’anno dopo), ma quelle proteste segnarono un prima e un dopo. Le violenze sui manifestanti evidenziarono la natura repressiva del nuovo corso, e allo stesso tempo fecero emergere per la prima volta la necessità di una larga coalizione sociale e democratica contro Erdogan.

Ma Ahmet Altan cita tantissimi altri eventi della storia della Turchia dell’ultimo secolo. Partendo da Enver Pasha (colui che «ha fatto crollare l’Impero Ottomano nell’illusione di diventare il leader di tutti i turchi del mondo»), passando per i colpi di stato militari riusciti del 1960, 1970, 1980, 1993 (il golpe “post-moderno” o “del 28 febbraio”) e quelli tentati del 2003 (l’operazione “Balyoz“) e del 2016.

Gezi Park proteste
Le proteste di Gezi Park del 2013, la cui violenta repressione da parte delle forze dell’ordine causò 9 morti e migliaia di feriti.

Il ritratto che emerge della Turchia è quello di un Paese fragilissimo, costantemente spaccato a metà tra un islamismo spesso integralista e una laicità imposta attraverso la dittatura militare. Il Paese della corruzione diffusa e di Ergenekon, un’organizzazione clandestina che agisce come uno stato nello stato in maniera simile alla “Gladio” italiana. Un Paese in cui, come sostiene Altan: «Quando si oltrepassano i limiti della legge e si cerca di accrescere il proprio potere con l’aiuto dell’esercito, i generali dicono: “Se il potere si appoggia alla forza delle nostre armi, allora noi, che teniamo in mano quelle armi, meritiamo il potere” e organizzano un golpe».

Fethullah Gulen
Fethullah Gulen, l’uomo ritenuto da Erdogan responsabile del golpe del 2016 (Foto Selahattin Sevi/AFP/AFP/Getty Images)

Ma Ahmet Altan rivolge accuse molto più dirette al governo. Il Pubblico Ministero incrimina lo scrittore riguardo al piano Balyoz (tentativo di golpe militare del 2003), che secondo lo stesso PM avrebbe favorito la sostituzione dei vertici delle forze armate turche con componenti della Cemaat: l’organizzazione di Fethullah Gulen ritenuta responsabile del golpe del 2016, organizzato proprio a partire da questo ricambio nell’esercito.

Ahmet Altan risponde facendo notare che solo una persona è rimasta sempre in posti di potere dal 2010 (anno in cui si aprì l’inchiesta proprio grazie a un articolo di Altan) al 2016: Recep Tayyip Erdogan. Sua è la firma sulla “legge sulle epurazioni nell’esercito” del 2015. Sua era l’affermazione in cui esprimeva “affetto” per Fethullah Gulen in un congresso organizzato dalla Cemaat. E suo è il ripristino del “Protocollo EMASYA“: un documento che dava la priorità ai militari rispetto ai civili nella pubblica amministrazione delle città. L’accusa è evidente: il principale responsabile del golpe è proprio Erdogan.

La politica, il privato, lo stile, la libertà di stampa

Ma le vere peculiarità di questo scritto, e della storia di Ahmet Altan, stanno, oltre al contenuto, in quella che prima ho forse impropriamente definito “forma”: ovvero, tutto il contesto che ruota intorno ai fatti. E soprattutto in due aspetti. Il primo è che, mai come in questo caso, “il privato è politico”, per mutuare uno slogan utilizzato in altri contesti. «Confido i miei segreti più intimi a Piazza Taksim»: con questa frase Ahmet Altan spiega la sua attitudine orientata alla chiarezza, alla trasparenza e all’onestà verso i lettori. Ma quella frase non è sua. La pronunciò in un discorso pubblico suo padre, Cetin Altan: scrittore, giornalista, politico, uno dei più grandi intellettuali turchi della seconda metà del XX secolo, morto nel 2015.

E rimanendo in tema, uno dei passaggi più significativi riguarda il fratello di Ahmet Altan, Mehmet, arrestato insieme a lui: «Non esistono prove contro di me, però c’è una scusa. Per Mehmet Altan, non c’è nemmeno quella. […] Ci dimostra che il nostro arresto non ha niente a che fare con le prove, né con le scuse. E nemmeno con il colpo di stato. Siamo stati arrestati perché criticavamo l’AKP e le sue politiche». Un dramma politico, e quindi pubblico, condiviso con quanto di più privato ci possa essere nella vita di un uomo: la famiglia.

Cetin Mehmet Ahmet Altan
Da destra: Cetin Altan con i due figli, Mehmet e Ahmet Altan.

Infine, il secondo riguarda proprio la forma nel senso più stretto: lo stile. Ahmet Altan per tutto il tempo si prende gioco del Pubblico Ministero che ha prodotto l’atto d’accusa, lo irride, lo rimprovera di non saper scrivere nella sua lingua madre, il turco. Ripete concetti semplicissimi due, tre, quattro volte, come si fa quando si parla ai bambini. Tale è la sua incredulità riguardo alla situazione in cui si trova. E un po’ lo capisco, quando quel senso di rassegnazione lo porta a chiedersi: «Non dico solo in quest’aula, ma nell’intero paese. C’è qualcuno che desidera rispondere alle mie domande?».

Nel finale, però, qualcosa cambia. Il Pubblico Ministero improvvisamente non è più uno sprovveduto di cui prendersi gioco, ma l’uomo che tiene prigioniero senza prove, e a rischio ergastolo, un giornalista 69enne. E i toni si fanno più duri: «Della sua galera non mi importa niente. Continuerò a dire la verità. […] Le sue indagini non hanno il minimo credito. Nè in Turchia nè nel resto del mondo». Lo accusa di aver “violentato” il diritto, e da qui il titolo del pamphlet.

Ecco, la storia di Ahmet Altan dovrebbe tenerci tutti con il fiato sospeso perché ci ricorda due cose: che anche in Turchia, alle porte dell’Europa, ci sono persone che pagano sulla propria pelle il prezzo della verità («Per me essere imputato in un processo come questo e trascorrere il resto della mia vita in prigione è più onorevole che essere il pubblico ministero che ha prodotto l’atto d’accusa»); e che i tribunali degli uomini non sono che minuscole trasposizioni del grande tribunale della Storia, l’unico a cui chiunque debba rendere conto: «Vostro Onore, […] Pensi a come vorrà essere giudicato, a quale tipo di verdetto si augurerebbe di ricevere, a come vorrà essere ricordato, e poi giudichi di conseguenza. Perché è lei che verrà giudicato».

Simone Martuscelli

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