È il 1818, nel pieno del Positivismo, movimento ispirato dalle rivoluzioni scientifiche e culturali settecentesche. L’uomo è finalmente al centro del mondo, riesce a smantellare gli eventi naturali e a captare e carpire quasi tutti i segreti della natura. Ci vorranno pochi anni per comprendere esattamente quanto grande sarà quel “quasi” e ribaltare completamente tutte le certezze nate nel momento storico in cui, nel pieno delle sue illusioni, l’uomo peccò di hybris, credendo di poter raggiungere qualsiasi obiettivo e conoscere ogni aspetto della realtà con il suo ingegno e la sua scienza.
Questo movimento culturale e filosofico invase ogni aspetto sociale e proprio queste influenze hanno contribuito alla stesura del romanzo horror di Mary Shelley dal titolo “Frankenstein, o il moderno Prometeo”.
Mary Wollstonecraft Shelley ebbe l’illuminazione leggendo di Luigi Galvani, lo scienziato italiano che nel 1780 iniziò dei particolari esperimenti sull’elettricità animale, per comprendere il rapporto esistente tra l’elettricità, la vita e i movimenti muscolari. Mary Shelley immaginò quindi la storia di un nuovo mostro, un essere umano che nasce dalla composizione di pezzi di più cadaveri e infine rianimato grazie alle nuove tecnologie.
Qualcosa però andò storto e la nuova creazione del dottor Victor Frankenstein risulta essere un abominio della natura. Le sicurezze del Positivismo risultano quindi mostrare le prime increspature, la fiducia nei confronti della bravura e dell’infallibilità umana vacilla e l’autrice delinea un mondo che si potrebbe interpretare come distopico, una realtà che incarna una grande paura: fin dove potrà spingersi l’uomo, con la sua tecnologia e con la sua voglia di sperimentare? O ancora, fin dove può agire la mano umana, prima di comprendere che non può giocare ad essere divina?
Mary Shelley scelse inizialmente di non firmarsi e restare quindi nell’anonimato, non immaginando quale immenso clamore avrebbe avuto il suo romanzo.
Insieme ad altre tipiche maschere horror (Dracula e Jekyll – Hyde) Frankenstein è nell’operazione editoriale di Stephen King “Creature dell’orrore” , un testo in cui si affronta la fortuna che determinati personaggi letterari hanno avuto e il modo in cui essi siano diventati delle vere e proprie maschere, cristallizzandosi nel tempo e spesso (purtroppo) svuotandosi della propria carica emotiva e caratteriale. Questi personaggi hanno in pratica avuto una crescita ed una loro evoluzione in un ambiente estraneo da quello designato dai loro scrittori, sono diventati canonici, dei simboli culturali un po’ come il Don Giovanni o la Giuditta. Un forte campanello d’allarme sta nel fatto che siano penetrati così tanto nella nostra tradizione, da essere sì conosciuti da tutti, ma solo per un “sentito dire” o tramite le numerosissime riscritture parodiche o non. Gli effettivi romanzi sono letti molto poco e ciò contribuisce alla distorsione dei rispettivi personaggi nell’immaginario collettivo.
In molti ad esempio affibbiano erroneamente il nome “Frankenstein” alla creatura e non allo scienziato e la prima immagine che riaffiora alla mente del mostro è la maschera creata dal truccatore Jack Pierce, che è presente nell’adattamento cinematografico di James Whale, ma non nel romanzo. In effetti la Shelley decide di non apportare alcuna descrizione della creatura, facendo solo intendere la bruttezza e l’orrore della sua figura, tramite la descrizione delle emozioni che prova lo scienziato nel guardarla.
Proprio sulle emozioni la scrittrice giocherà molto nel corso dell’opera.
In piena opposizione alla figura dello scienziato invincibile, figlio della rivoluzione culturale, il dottor Frankenstein agisce manovrato dalla solitudine e dalla malinconia: la morte della madre lo fa riflettere sulla debolezza e sull’inconsistenza dell’essere umano e, spinto da tale malumore, decide di creare lui stesso un essere immortale, non soggetto alle dure leggi dello scorrere del tempo. A muovere la trama è quindi un trauma psicologico, una debolezza dello scienziato.
La sua stessa creatura agirà e si muoverà spinta da un trauma. In un periodo storico in cui la scienza ancora non aveva negato il rapporto tra il volto e l’indole, il personaggio creato dalla penna di Mary Shelley si comporta da mostro, perché la sua faccia è mostruosa. Giravano infatti testi narrativi (proprio come questo) affiancati ad illustrazioni che cercavano di spiegare il rapporto che esiste tra le malattie psichiche e determinati connotati fisici.
«Io sono malvagio perché sono infelice, non sono forse evitato e odiato da tutta l’umanità?»
La creatura di Frankenstein però nota una forte incongruità tra quello che è il suo significato e il suo significante, tra il suo aspetto e la sua interiorità. Ma come è possibile tutto ciò? Perché, proprio a lui, è capitata quella maschera pirandelliana antisociale? In una società in cui il volto coincide con la propria identità, le sue fattezze danno vita ad un cortocircuito, alle repellenze dell’Ade sulla terra dei vivi. Non è altro che un condannato, un essere destinato all’infelicità , un’anima rinchiusa in un corpo deforme. E tutto ciò è accaduto perché il suo creatore era solo un Prometeo, che ha giocato a fare Zeus.
Alessia Sicuro