Dal 2019 è disponibile in tutte le librerie Quichotte di Salman Rushdie, un romanzo dal sapore picaresco che, giocando con l’evidente citazione all’opera seicentesca di Cervantes, dipinge il passaggio tra due mondi sia che si parli di migrazione dall’India all’America, che del processo di globalizzazione e di innovazione tecnologica.
Con una struttura narrativa a matrioska, Salman Rushdie racconta le vicende del protagonista Sam DuChamp, un mediocre scrittore di spy stories che, ispirandosi a Don Chichotte de la Mancha, crea un personaggio di nome Quichotte: un gentile commesso ossessionato dalla televisione e che si innamora perdutamente di una star della TV. Insieme al figlio (immaginario) Sancho, Quichotte si lancia in un viaggio per attraversare tutta l’America e fronteggia coraggiosamente i tragicomici pericoli di un’epoca in cui “Tutto Può Succedere”. Tali vicende fungono da specchio a quelle del loro creatore che, in preda a una inesorabile crisi di mezza età, si trova alle prese con sfide altrettanto pressanti nella vita reale.
La prosa torrenziale ma sempre brillante di Salman Rushdie crea un articolato percorso metaletterario in cui Quichotte non è più l’illuso e anacronistico cavaliere, perso in un mondo in cui la borghesia aveva sostituito il buon costume alto-medievale, ma un uomo puro e incontaminato dalla tecnologia, che vede nello strumento della televisione un ché di misterioso e di profetico, una divinità da inseguire e venerare, pur non comprendendone i meccanismi e le fattezze. Lo stesso DuChamp dichiara di voler prendere posizione contro la distruttiva e ingannevole spazzatura culturale del suo tempo, proprio come Cervantes aveva combattuto contro la spazzatura culturale della sua epoca e lo fa con un inno amaro all’America:
«che fine hanno fatto il tuo ottimismo, le tue frontiere, i tuoi semplici sogni alla Norman Rockwell? Mi tuffo nelle tue tenebre, America, affondando nel tuo cuore come un coltello, ma la lama della mia arma è la speranza.»
Ancora una volta il file rouje scelto da Salman Rushdie è il tema della migrazione, affrontato ora con un’attenzione sull’identità e, nello specifico, sull’identità linguistica.
«Te la insegnerò io, figliolo. La tua lingua madre, figlio mio senza madre. È una lingua di rinomata bellezza. E ti insegnerò anche il bambaiyya, variante locale che si parlava per le strade quand’ero bambino, è meno bello, ma lo devi conoscere, perché solo quando lo avrai imparato potrai considerarti cittadino di quella città che non hai mai visto».
Se Chichotte ha scelto di tentare la fortuna nella Grande Mela, Sancho non ha mai conosciuto l’India seppur sia stato cresciuto da un uomo che ne è del tutto invischiato e che ha profonde difficoltà a comprendere l’America e a carpirne l’essenza. Le lezioni sul vernacolo del bambaiyya sono riuscite a far sentire Quichotte ricongiunto con la sua giovinezza: quelle parole di origini remote gli evocavano antichi ricordi e proprio lì, in quell’idilliaco passato costruito su fonemi e morfemi, padre e figlio riescono a incontrarsi e a riavvicinarsi. L’immigrazione porta con sé il dolore dell’allontanamento dalla propria terra e la speranza di un futuro migliore. La memoria è la fiamma che tiene in vita le radici e l’identità, un’identità che però è in bilico, sul filo di un rasoio, poiché vivere tra due mondi significa cristallizzare nel passato l’immagine di quello di partenza e mai integrarsi davvero e del tutto in quello di arrivo.
In linea con il discorso sulla memoria, Salman Rushdie affronta il tema della scrittura. La letteratura permette da sempre tale cristallizzazione: un qualsiasi luogo in un qualsiasi attimo può essere immortalato e diventare eterno. I personaggi che lo abitano vivono sotto le rigide regole del loro dio, lo scrittore, colui che dona loro la memoria, la storia e l’obiettivo della quête. La letteratura è quindi depositaria dei ricordi del passato e diventa strumento fondamentale per la narrazione delle vite dei migranti. Ma l’arte della scrittura permette anche di andare oltre: l’autore, nelle opere di finzione, può strumentalizzare i suoi personaggi per rendere fruibile ai suoi lettori il suo dolore, la sua nostalgia, il suo personalissimo messaggio e il suo sguardo sul mondo. Non a caso DuChamp, voce di Salman Rushdie, riflette su come la morte di Don Chisciotte non sia altro che la rappresentazione dell’estinzione, in tutti noi, di un tipo particolare di follia, una cosa per cui nel mondo non c’è più posto: l’umanità. L’individuo ai margini, la persona comicamente fuori posto si rivela anche come la persona più meritevole di attenzioni e di compianto. Questo sentimento di compassione si lega ancora una volta alle minoranze, rimaste in panchina anche durante il processo di globalizzazione.
«Un tempo le persone credevano di vivere dentro piccole scatole, che contenevano per intero le loro storie, ragion per cui non c’era bisogno di preoccuparsi granché di quel che facevano gli altri nelle altre piccole scatole, vicine o lontane. Le storie degli altri non avevano nulla a che fare con le nostre. Poi, però, il mondo si è ristretto e tutte le scatole sono state sospinte una contro l’altra e si sono aperte, e ora tutte le scatole sono connesse [..]»
Un mondo disconnesso implica l’esistenza di tanti piccoli gruppi umani pronti a vivere la loro realtà con la propria personalissima gamma di valori e di credenze. La globalizzazione, con il contributo dei social media, ha invece creato una società senza memoria, in cui ogni singola notizia del giorno si nutre di se stessa. Da qui la fallacia delle lotte social: la Sorella di DuChamp ha ad esempio dedicato la sua vita alla lotta contro il razzismo. I suoi sforzi sono però stati resi vani poiché, dal giorno alla notte, il distratto pubblico della rete lo ha semplicemente dimenticato. Una Storia (di lingua e di azione) costruita in questo modo è destinata a sgretolarsi come un telaio di vita fatto a brandelli. Sul telaio, racconta Salman Rushdie, tessiamo le nostre giornate con fili familiari (amicizia, amore, salute, famiglia e comunità), nel cuore della tessitura ci sono i grandi pilastri dell’umanità: la razza, la storia, la lotta e la memoria. Ora che la vita è diventata un insieme di fotografie evanescenti, postate un giorno dopo l’altro, nessuna ha più la sua storia poiché non resta che la piatta caricatura dell’istante e solo su questo ormai si viene giudicati.
Alessia Sicuro