Si tratta davvero di una sola questione di giustizia ed equità tra i generi? No. Si tratta di scelte economicamente efficaci e di risultati misurabili: allargare la percentuale di donne occupate, intervenendo sulle questioni collaterali che fanno da freno, è una scelta che fa guadagnare. E fa guadagnare anche gli uomini. Poche settimane fa, la Bain & Company Italia ha presentato l’indagine sulla diversity nei luoghi di lavoro – “L’Italia non è (ancora) un paese per donne” – durante “THE FUTURE WOMEN (AND MEN?) WANT”, il primo open event digitale sulla diversità di genere in Italia.
Il risultato? L’equità tra uomo e donna nei luoghi di lavoro è un traguardo ancora lontano. Soprattutto per quel che riguarda le posizioni apicali.
Una corsa ad ostacoli, di una gara al maschile
Non è una guerra tra generi, è una guerra tra sistemi di pensiero, che è comodo far scadere nell’atteggiamento radicale di chi non accetta compromessi. Eppure è la mescolanza, la realtà. È la coesistenza di un’umanità variegata, ampia, ricca. La normatività non coincide solo col genere maschile, col sesso maschile e le sue più becere connotazioni ed è ora di iniziare a fare i conti con questa evidenza. L’assunto per cui la norma è al maschile e il contrario è femminile, produce danni indicibili. Per questo non sono sufficienti le quote rosa. Le quote rosa di un sistema normativo al maschile rappresentano la concessione all’eccezione, la singolarità elevata a feticcio della norma. Certo, potrà essere obiettato, a nessuno piacciono le quote rosa ma sono necessarie affinché il meccanismo della gender equality si metta in moto. Ma se questo è vero, allora è tempo di pretendere anche il resto.
Di godere delle medesime condizioni di partenza e generare condizioni per agevolare la crescita interna, nelle aziende, delle carriere delle donne che, spesso, stenta a decollare. Di indagare le motivazioni sottese agli ostacoli posti nei cammini delle donne per lavorare e farlo a massimi livelli per poi intervenire su quelle.
Da cosa nascono gli impedimenti? Disinformazione, pregiudizi e un sistema antico di distribuzione iniqua di doveri che fatica ad essere scardinato? Se, parafrasando Foucault, è vero che nulla è reale se prima non esiste tra le righe dei codici, allora è il momento di pretendere politiche che favoriscano la gender equality sui luoghi di lavoro. E, in un sistema di vasi comunicanti, operare sulla narrazione delle donne: raccontarne la pluralità, senza giudizi. Raccontare di donne capaci e bellissime, di donne felici, soddisfatte nel guidare un’azienda o nello stare a casa. Perché (e l’abbiamo già detto) è la mescolanza, la realtà.
Perché le donne faticano ad entrare nel mondo del lavoro?
Secondo rapporto di Bain & Company, la maternità non è più il solo elemento impedente l’ingresso, la permanenza e il ritorno nel mercato del lavoro delle donne, tanto più che il tasso di natalità in Italia è uno dei più bassi in Europa. Nonostante non facciano più figli, però, le donne sono ancora maggiormente portate, rispetto agli uomini, a chiedere un part-time o riduzioni nell’orario di lavoro per assolvere una serie di doveri relativi al lavoro di cura o di gestione domestica. Tutti quei lavori insomma che, moralmente e tradizionalmente, sono assegnati loro.
Sempre riportando i dati del rapporto di Bain & Company, il tasso di occupazione delle donne è di 18 punti percentuali più basso di quello degli uomini, il lavoro part time riguarda il 73,2% le donne ed è involontario nel 60,4% dei casi. I redditi complessivi guadagnati dalle donne sul mercato del lavoro sono in media del 25% inferiori rispetto a quelli degli uomini.
Eppure le donne studiano di più degli uomini (secondo L’Istat, il 22,4% delle donne contro il 16,8% degli uomini), raggiungono risultati migliori in un tempo minore ma, dopo il raggiungimento del risultato accademico, la loro corsa si arresta e le percentuali si invertono: gli uomini lavorano di più, vengono pagati di più e raggiungono anche ruoli apicali. Le donne no. E, non lavorando loro, il Paese perde tra i 50 e i 150 miliardi di euro: il potenziale, come riportato da Il Sole 24Ore, dell’occupazione femminile.
Quote rosa? No, grazie.
Non si tratta della richiesta di un’applicazione acritica delle cosiddette quote rosa, né tantomeno si teorizza una superiorità di genere o una gerarchizzazione delle competenze su base biologica. No, la condizione che viene contestata è sulle condizioni di partenza. Il corpo delle donne non può essere ancora una volta merce di scambio sul tavolo delle trattative dove, per legge, viene concesso ciò che dovrebbe essere norma: le donne non devono essere assunte in forza di una vagina.
Affermare: “tutte le donne vanno assunte in quanto tali” è la negazione stessa e forse ancora più profonda delle istanze di riconoscimento del proprio ruolo da attore attivo all’interno del mercato del lavoro. Parafrasando la filosofa Judith Butler e (forse impropriamente) appropriandoci di sue riflessioni sull’identità di genere e le teorie femministe, voler a tutti i costi ritrovare una unitarietà all’interno della categoria delle donne e voler a tutti i costi far coincidere quest’insieme con quello delle lavoratrici, è controproducente oltre che riduttivo.
Ciò che va affermato, difeso, diffuso e protetto è il diritto di accedere alle medesime possibilità degli uomini, senza meccanismi atti a favorire il raggiungimento di quest’obiettivo ma senza ostacoli o impedimenti di sorta. Non devi assumermi perché sono donna, devi assumermi perché sono preparata.
Non è un vezzo, non è il revival di una rivendicazione anni ’70, non è far tremare i muri per il rumore di tacchi in arrivo: è giustizia sociale. Sono numeri. Sono risorse del Paese, dalla quantità indicibile ed infinita, gettate al vento. È liberarsi dal giogo della tradizione, uscire dalle tessere del mosaico in cui le donne sono incasellate e, sì: decidere liberamente cosa diventare, assolvendo le coscienze da obblighi e sensi di colpa che sussistono e si tramandano all’interno di una narrazione tossica tanto per gli uomini quanto per le donne.
Non si tratta di fare la guerra agli uomini, alle madri che preferiscono rimanere a casa a crescere i figli piuttosto che lavorare, si tratta di scardinare – per diritto e non per piacere – un sistema di pregiudizi vecchio di secoli. Di emanciparci dalla prospettiva di vita anni ’50, della narrazione da caverna “l’uomo va a caccia, la donna bada al focolare”. Di dismettere l’abitudine e gli stereotipi, quelli che ci fanno preferire un capo di governo maschio ad una femmina, quelli che ci fa sentire più al sicuro se a capo dell’azienda c’è un uomo, magari in giacca e cravatta piuttosto che una donna.
Quelli che ci fanno guardare con ammirazione il self-made-man e con antipatia la donna che ce l’ha fatta. È l’abitudine, il problema. Il pregiudizio. È una battaglia culturale, la nostra, che si può vincere solo “normalizzando” il genere femminile, escludendo rapporti di forza tra scelte di vita e gerarchie tra generi, ma che richiede la partecipazione degli uomini. Perché, come affermato da Claudia D’Arpizio, Global Head del Vertical Moda & Lusso e Board Member del DEI (Diversity, Equity & Inclusion) Council di Bain & Company: “il 70% della ricchezza globale è nelle mani degli uomini, dandogli il potere di cambiare le cose. Ma lo vogliono davvero?”
Edda Guerra