Domenica 17 aprile si terrà il referendum sulle trivelle, il primo in Italia ad essere ottenuto dalle Regioni. Sono stati dieci, poi nove a causa del passo indietro dell’Abruzzo, i consigli regionali ad aver depositato le firme necessarie per indire un referendum popolare.
I cittadini sono chiamati ad esprimere la propria preferenza circa i permessi di estrarre idrocarburi in mare. Dovranno quindi decidere se le estrazioni entro 12 miglia dalla costa dovranno durare fino all’esaurimento del giacimento, come previsto attualmente, o fino al termine della concessione.
Originariamente i quesiti referendari erano sei: ne è rimasto solo uno dopo che gli altri cinque sono stati eliminati in seguito alla modifica apportata alla Legge di Stabilità. I quesiti eliminati avevano l’obiettivo di dare agli enti locali un ruolo decisivo nelle decisioni di sfruttamento di gas e petrolio, ruolo già dimensionato con la legge Sblocca Italia.
Secondo un documento di recente pubblicato da Greenpeace, le trivellazioni sono pericolose per la salute umana e per la fauna ittica. Esso è basato su dati raccolti fra il 2012 e il 2014 dall’Ispra, su commissione dell’Eni. Il rapporto dell’organizzazione ambientalista stabilisce che in alcuni sedimenti marini sono state trovate delle sostanze chimiche in quantità superiori a quelle stabilite per legge.
Ottimisti e Razionali, organizzazione che si batte contro il referendum, afferma invece che i limiti di legge presi in considerazione dal rapporto di Greenpeace si riferiscono ai valori stabiliti per le acque che distano un miglio dalla costa, mentre le piattaforme sono più lontane e che l’Ispra ha, tuttavia, concluso la sua ricerca sostenendo che non ci sono criticità per l’ecosistema legate alle piattaforme.
Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico, al momento nei mari italiani vi sono 135 piattaforme, 92 delle quali presenti entro le 12 miglia e quindi a rischio con il referendum. Le piattaforme sono in gran parte situate nello Ionio e nell’Adriatico, con l’eccezione di quelle presenti a Gela, in Sicilia. Le concessioni però rilasciate dallo Stato alle compagnie petrolifere hanno una durata iniziale di trent’anni, prorogabile la prima volta per dieci, la seconda per cinque e la terza per altri cinque. Se il referendum dovesse avere esito positivo, la prima chiusura avverrebbe tra due anni, nel 2018, mentre per l’ultima bisognerebbe aspettare il 2034, data di scadenza della concessione rilasciata ad Eni ed Edison per le trivellazioni a Gela.
Le trivelle entro le 12 miglia, secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico e date le importazioni di idrocarburi dell’Italia, hanno soddisfatto fra il 3 e il 4 per cento dei consumi di gas e l’1 per cento di quelli di petrolio. La tassazione complessiva a cui sono sottoposte in Italia le società petrolifere è pari al 63,9% in media, mentre le cosiddette royalties, le imposte pagate sul valore di vendita del gas e del petrolio, sono pari al 7 per cento per il primo ed al 4 per il secondo. La quota per le piattaforme situate entro le 12 miglia è stata nel 2015 di circa 38 milioni.
La questione ambientale ed energetica si intreccia con quella dei posti di lavoro. Chi sostiene il no al referendum, infatti, porta proprio questa come principale argomentazione. Assomineraria asserisce che l’attività estrattiva italiana nella sua totalità fornisce lavoro a 10mila persone. Un numero preciso, però, dei lavoratori delle piattaforme presenti entro le 12 miglia e che in caso di vittoria del referendum sarebbero a rischio, non è fornito.
Sabrina Carnemolla