In vista dell’8 marzo e di tutte quelle questioni di genere che una giornata come questa può sollevare, è necessario approfondire la questione di quelle donne musulmane che, per scelta o per obbligo, decidono di coprire o di non coprire il capo con il tradizionale Hijab.
Portare il velo, per molto tempo, è stato considerato come l’espressione materiale della sottomissione delle donne nella cultura islamica ma esiste in occidente e non solo, una grossa fetta di donne che scelgono come oggetto di autodeterminazione o, più semplicemente, come atto femminista quello di indossare il velo.
Il velo e altre restrizioni mortali
Nella cultura islamica esistono molte restrizioni dell’abbigliamento sia maschile che femminile. Infatti, se alle donne è proibito portare il capo scoperto (o il volto in alcuni casi) o portare vestiti che non siano lunghi fino alle caviglie agli uomini è proibito indossare pantaloni lunghi fino al ginocchio o qualsiasi capo d’abbigliamento che sia aderente.
In alcuni paesi islamici come, ad esempio, Iran, Afghanistan, Arabia Saudita, Pakistan, Yemen e Sudan il velo rappresenta per le donne un obbligo imposto dalla legge e se non viene rispettato si può incappare in conseguenze come la detenzione o la morte, come nel caso della giovane Mahsa Amini. È stata proprio la morte di Mahsa Amini a riaccendere i riflettori sulla libertà delle donne in paesi come l’Iran, in cui la fede islamica è mescolata allo Stato e, di conseguenza, le donne si ritrovano spesso a vivere in condizioni di sottomissione legalizzata.
L’Hijab, se considerato in questa prospettiva, rappresenta un braccio della morte in cui finiscono dentro coloro che sentono questa tradizione islamica come limitante e opprimente. Esistono però diverse donne che riescono, attraverso l’uso del velo, ad autodeterminarsi rivendicando la propria “islamicità” sfoggiando fieramente il proprio Hijab.
In questo senso viene naturale chiedersi cosa veramente rappresenti il velo: simbolo di sottomissione o atto di autodeterminazione del corpo? Ovviamente, la risposta è nel contesto socio-culturale.
World Hijab Day e Global Body Riot: due prospettive opposte
Un esempio concreto che può aiutare a riflettere sulla questione è sicuramente quanto avvenuto il primo febbraio 2023.
Dieci anni prima fu fondato il World Hijab Day, a seguito di una campagna di sensibilizzazione promossa dalla cittadina newyorkese di origini bengalesi Nazma Khan. L’intento della giornata è quello di far riflettere sull’importanza del velo come oggetto di rivendicazione della propria cultura per le donne islamiche che vivono in occidente oltre che una necessaria giornata di riflessione per combattere l’islamofobia ormai fin troppo diffusa in quasi tutto il mondo.
Da un lato la giornata mondiale del Hijab, che identifica il velo come una delle manifestazioni più evidenti dell’appartenenza ad una determinata cultura. Dall’altro una manifestazione, organizzata sempre il primo febbraio ma del 2023, proprio nella stessa data della giornata mondiale del Hijab successivo alla morte di Mahsa Amini. Si tratta del Global Body Riot, una manifestazione a sostegno delle donne iraniane che si trovavano in strada a manifestare da settembre 22 a rischiare la vita per la propria libertà, manifestazioni intensificatesi dopo la morte di una giovane donna la cui unica colpa è stata quella di aver tolto il velo in un luogo pubblico.
Il velo può essere gabbia o libertà
In effetti, questa giornata e le sue diverse interpretazioni sono il riassunto perfetto della questione del velo e su quello che rappresenta. Ci sono donne che scelgono consapevolmente di indossare l’Hijab perché pensano che non sia solamente «un invito a coprirmi ma un identificativo dell’appartenenza alla fede islamica» come afferma Hagar Keshk, artista romana di origini egiziane che ha scelto consapevolmente di indossare il velo.
In alcune parti del mondo, portare l’Hijab rappresenta un dovere espresso dalla legge e una parte della cultura nazionale e religiosa accettata e vissuta senza coercizione. Ciononostante, in quegli stessi Paesi, le donne hanno cominciato a manifestare il proprio dissenso e la propria contrarietà tra pericoli e rischi anche mortali e nel rifiuto della legittimità della propria posizione all’interno della società islamica.
Il velo dovrebbe rappresentare una scelta che appartiene solamente alle donne e che rappresenta una decisione consapevole e maturata nel tempo e, soprattutto, partorita nella più totale libertà di scelta al di fuori di ogni condizionamento.
Dialogo e sensibilizzazione sono necessarie
La questione del velo, dunque, si rivela come un caleidoscopio di significati che variano a seconda del contesto culturale, religioso e personale. In un’epoca in cui l’identità femminile e la lotta per l’autodeterminazione del corpo femminile sono al centro di un acceso dibattito, è fondamentale promuovere un dialogo aperto e una mirata azione di sensibilizzazione che riconosca la pluralità delle esperienze e delle scelte e che, in un contesto occidentale come il nostro, eviti il propagarsi di fenomeni islamofobi.
L’8 marzo, e ogni giorno, sono un’occasione irripetibile per riflettere anche su come la libertà di espressione e di autodeterminazione debba essere garantita a tutte le donne, indipendentemente dalle loro scelte individuali.
Benedetta Gravina