“È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circustanze (…) “.[1]

Questa, in sintesi, la visione della realtà di Francesco Guicciardini, scrittore, storico e politico italiano del XVI secolo, nato nel 1483 a Firenze.

Egli sostiene nelle sue opere l’impossibilità di descrivere la realtà in pochi concetti generali e universali. Ogni aspetto del creato è infatti particolare, irripetibile, differente da tutti gli altri e per conoscerlo bisogna analizzarlo nella sua unicità, senza far riferimento ad epoche passate.

Guicciardini elimina così la possibilità di ricorrere alla storia e agli eventi passati per risolvere situazioni presenti perché essi differiranno certamente dai precedenti. Nei “Ricordi”, la sua più celebre opera, egli dirà che come gli asini non potranno mai imitare i cavalli, così i moderni non potranno mai imitare gli antichi.[2]

Da queste osservazioni deriva la critica che lo scrittore fa nelle “Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio” a Niccolò Machiavelli, nato anch’egli a Firenze quattordici anni prima, ritenendolo un utopista.

Machiavelli fa propria l’antica massima “historia magistra vitae”. Egli crede che la natura umana sia immutabile e che si riscontrino quindi nel presente situazioni analoghe a quelle passate, da cui è possibile cogliere insegnamento. Questa sua concezione della realtà è espressa proprio nell’opera criticata da Guicciardini, “Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio”, in cui Machiavelli analizza le vicende della repubblica romana alla luce dei primi dieci libri scritti dallo storico latino Tito Livio.

Dall’osservazione del passato deriva infatti il suo sostegno al regime repubblicano. Egli constatò che le città raggiungevano sempre il loro periodo di massimo splendore quando vivevano nella pura libertà, che viene intesa da Machiavelli come autogoverno.

Possiamo notare un certo contrasto anche in ciò che i due autori identificavano con la virtù. Essa, mentre è per Machiavelli la capacità di piegare in base alle proprie esigenze i rivolgimenti della Fortuna, vista come un fiume in piena da arginare prima che possa causare danni o, più crudelmente, come una donna che va picchiata (“batterla e urtarla”) per renderla arrendevole[3], è in Guicciardini l’esatto opposto: la discrezione. Egli crede nell’incapacità degli individui di modificare il corso degli eventi. Per questo motivo, non gli resta che affidarsi alla discrezione, la consapevolezza della complessità e irrazionalità del reale e la capacità di analizzare i singoli fatti nelle loro infinite sfumature, adattando ad esse il proprio comportamento.

Quale rapporto esiste quindi tra antico e moderno? Si tratta di elementi strettamente collegati come affermato da Machiavelli, o essi sono invece privi di alcun nesso, come sosteneva Guicciardini?

Le riflessioni di questi autori restano dopo secoli ancora attuali e le domande che la loro discordanza ci pone restano ancorate alla sfera della soggettività.

Chiara Torrente

[1] Francesco Guicciardini, Ricordi, 6.

[2] Francesco Guicciardini, Ricordi, 110.

[3] Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXV.

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