Da diversi giorni nel Caucaso, precisamente nella regione del Nagorno-Karabakh, sono in corso degli scontri tra Armenia e Azerbaijan. I due stati non sono nuovi a questi conflitti, poiché la regione in questione è un territorio separatista collocato formalmente in Azerbaijan ma controllato da un governo fantoccio dell’Armenia. Il conflitto non è mai terminato, dato che gli scontri in armi continuano ininterrottamente dal 1991, si concretizzano in scaramucce di qualche settimane e poi terminano senza nessuna conseguenza.
Questa volta, però, le cose potrebbero andare diversamente. Gli eserciti hanno mobilitato i riservisti, gli armamenti pesanti e l’artiglieria. Sono morte più di 90 persone, tra le quali diversi civili. Secondo il governo armeno gli scontri sono iniziati dopo alcuni bombardamenti al confine del Nagorno-Karabakh da parte delle forze dell’Azerbaijan che hanno causato morti e feriti. L’esercito armeno avrebbe risposto sparando dei colpi di artiglieria e colpendo due elicotteri, tre droni e tre carri armati. Il governo azero, al contrario, ha accusato l’Armenia di aver iniziato gli scontri.
Il Nagorno-Karabakh è uno di quei motivi per cui i governi dei due Paesi non andranno mai d’accordo. Autoproclamatosi indipendente nel 1991, è un’area interna dell’altopiano armeno, aspra e montagnosa, grande appena 11mila chilometri quadri, abitata in maggioranza da armeni di religione cristiana ma fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nell’orbita della Repubblica Socialista Sovietica Azera.
L’Azerbaijan è uno stato storicamente vicino alla Turchia, molto più grande e popoloso dell’Armenia e soprattutto ricchissimo di risorse energetiche. L’Armenia, dal canto suo, ha un grande fratello di nome Russia. Dopo i primi scontri, i russi hanno chiesto un “cessate il fuoco“, mentre Recep Tayyip Erdogan ha rinnovato il suo appoggio all’Azerbaijan. Ed è proprio questo il motivo per cui il conflitto potrebbe allargarsi, diventando qualcosa di profondamente diverso rispetto alle scaramucce a cui i due Paesi in questione hanno abituato i vicini negli ultimi anni. E potrebbe coinvolgere anche stati al di fuori del Caucaso.
Il Nagorno-Karabakh, una regione contesa
La storia del Nagorno-Karabakh è piuttosto complicata. Negli anni Venti del Novecento la regione, allora parte della Trans-caucasia, era stata promessa all’Armenia dall’Unione Sovietica. Poi, però, Stalin cambiò subito idea e per ingraziarsi la Turchia, dove voleva portare l’influenza del comunismo, venne creato l’Oblast Autonomo del Nagorno-Karabakh che venne inglobato nella Repubblica Socialista Sovietica Azera, contro la volontà della maggior parte degli abitanti di fede cristiana. Al contrario, nell’Azerbaijan la religione dominante è quella musulmana sciita.
Dopo la decisione di Stalin, la tensione tra la regione e i governanti azeri salì vertiginosamente. Con la disgregazione dello stato sovietico, il Nagorno-Karabakh ne approfittò per staccarsi dall’Azerbaijan. Nel 1988 il Parlamento regionale dichiarò la propria indipendenza, gli azeri chiesero aiuto all’URSS ma Mosca non fece nulla. Così scoppiò la prima guerra tra l’Armenia e l’Azerbaijan che si combatté tra il 1992 e il 1994 ma che risale, per alcuni episodi di pulizia etnica, alla fine degli anni Ottanta.
Durante il conflitto vennero uccise 30mila persone e ci furono quasi un milione di sfollati, molti dei quali, ancora oggi, vivono nei campi profughi. Il 5 maggio 1994 a Bishkek, nel Kirghizistan, venne firmato un cessate il fuoco che molto spesso non è stato rispettato. I due Paesi sono ancora formalmente in guerra ma alla fine, il Nagorno-Karabakh ha ottenuto una sorta di indipendenza di fatto con la formazione di un governo fantoccio, supportato dagli armeni, e non riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto a sovranità molto limitata. Da allora le scaramucce sono continuante costantemente fino al 2016. Si è trattato di piccole guerre periodiche che hanno provocato meno di venti morti. Ecco perché, con quasi cento morti in poche settimane e il con il coinvolgimento diretto di entità statali esterne agguerrite e con profondi interessi energetici nella zona, le cose potrebbero precipitare.
Non è solo un conflitto tra Armenia e Azerbaijan
Fino al 2016, un ruolo fondamentale nel normalizzare le relazioni tra i due Paesi l’ha rivestito la Russia. È utile ribadire che entrambi gli stati, Armenia e Azerbaijan, sono ex repubbliche sovietiche. Mosca preserva una certa influenza politica, oltre ad essere uno dei principali partner commerciali dei due paesi e a vendere loro armamenti di ogni tipo. Inoltre, è uno dei tre membri del Processo di Minsk, quel gruppo formato da tre nazioni (Stati Uniti, Francia e Russia) che dopo il grande conflitto del 1994, hanno negoziato il cessate il fuoco tra i due Paesi.
Questa volta Mosca, presa dall’emergenza sanitaria e dalla crisi bielorussa, non è riuscita ad intervenire in tempo per bloccare quello che sta succedendo in Nagorno-Karabakh. Al contrario, la Turchia, decisa a riaffermare il suo ruolo guida nella regione, ha abbracciato la causa dell’Azerbaijan, in nome della fratellanza religiosa che lega i due Paesi, e ha cominciato ad inviare armi, aerei e soprattutto mercenari. Dalle parole ai fatti, dunque.
L’intervento della Turchia in un conflitto che finora era stato gestito solo dai russi ha messo seriamente in difficoltà il presidente Vladimir Putin, poiché se è vero che nel corso degli anni lo status quo era stato garantito dalla presenza di un colosso militare come quello russo, adesso, con una Turchia che appoggia apertamente l’Azerbaijan, Putin è costretto a prendere una posizione a favore dell’Armenia, rimasta sola. La Russia ha una base militare in loco e ha un patto di difesa reciproca con gli armeni. Ultimamente i rapporti tra Mosca e Yerevan non sono idilliaci, dato che secondo Putin l’attuale governo sarebbe un po’ troppo “filo-americano“, ma in questi casi il presidente russo sa come affermare la propria presenza.
Per ora Mosca sta cercando a tutti i costi una soluzione diplomatica per fermare i combattimenti, poiché al di là degli incartamenti diplomatici, Putin coltiva dei buoni rapporti con entrambi i Paesi. Egli non avrebbe nessun interesse ad entrare nei combattimenti, se non fosse che così facendo la Turchia avrebbe mano libera per espandersi nel Caucaso meridionale. E Putin questo non può permetterselo. Se il conflitto in Nagorno-Karabakh dovesse finire per coinvolgere anche la Russia, sarebbe la terza “guerra ufficiosa” che le due potenze regionali combattono su fronti opposti, dopo quelle in Siria e in Libia.
La protezione dello spazio post-sovietico è un’ossessione per la Russia, la quale ha visto il suo impero dissolversi dopo il 1989. I tempi, però, sono cambiati e i russi non sono più gli unici a coltivare interessi geopolitici in questi territori. La Turchia vuole imporsi come grande potenza regionale e vuole farlo anche e soprattutto a spese della Russia nel Caucaso, una zona molto ricca dal punto di vista energetico. Anche l’Iran, dopo la Rivoluzione del 1979, ha cominciato a interessarsi al Caucaso meridionale, abitata anche da musulmani sciiti, nel tentativo di imporsi come potenza regionale sfruttando il fattore religioso.
Da non sottovalutare, al contempo, il miglioramento dei rapporti tra l’Azerbaijan e Israele. Infatti se da un lato il primo soddisfa il 40% del fabbisogno energetico di Tel Aviv, quest’ultimo vende armi agli azeri per diversi miliardi di dollari.
Il Caucaso rappresenta un’area vitale per gli interessi energetici anche per il Belpaese e l’Unione Europea. L’Azerbaijan, nello specifico, è un grosso hub energetico del gas per l’Europa, e intrattiene con l’Italia una cooperazione a 360 gradi, dalla politica all’economia, passando per la cultura e l’università. Tra il mar Caspio e il mar Nero, passa la sopravvivenza energetica dell’intera Europa. Dal TAP, che dovrebbe arrivare in Italia attraverso la Puglia fornendo 8 miliardi di litri cubi di gas all’anno, senza dimenticare l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan.
Non sono da sottovalutare, al contempo, gli ottimi rapporti che l’Italia osserva con l’Armenia, che durano da tempo immemore. Si tratta di un profondo legame culturale che passa anche attraverso la religione (San Biagio, ad esempio, è un santo armeno, patrono di alcune città italiane) e l’economia. Ci sono 170 aziende italiane in Armenia. E il loro numero è destinato a crescere. Per ora l’Italia ha preferito sottoscrivere il cessate il fuoco chiesto dall’Unione Europa e dagli Stati Uniti, optando per un neutrale equilibrio in Nagorno-Karabakh. Una scelta obbligata, che rischia però di essere scambiata per l’ennesimo caso di immobilismo in politica estera.
Gli occhi del mondo, comunque sia, sono per ora puntati sulla Russia. Se si limiterà a richiamare tutti all’ordine, ciò significa che Putin non considera necessario un intervento per ridimensionare l’interventismo azero e turco. Con questa soluzione molte cose potrebbero cambiare nel Caucaso, soprattutto per la Turchia. Nel caso in cui il peso delle parti mutasse a favore di Ankara, gli interessi energetici europei in loco sarebbero messi in serio pericolo, poiché sarebbero nelle mani delle manie egemoniche di un individuo come il presidente turco, il quale continua a dare filo da torcere alle istanze europee d’oltre confine.
Se l’Occidente, impegnato con il virus, ha optato per una disinteressata soluzione diplomatica, dimostrandosi ancora una volta poco attento ai delicati giochi di equilibrio orientali, la Turchia e gli altri attori regionali hanno fiutato l’opportunità di inserirsi nel mercato energetico, anche a costo di scatenare una guerra. Trovare una soluzione in questo contesto, senza troppi spargimenti di sangue, sarà molto difficile.
Donatello D’Andrea