"Il permafrost rischia di sparire nei prossimi 10 anni": la resistenza artica di Serghei Zimov
Ritratto di Serghei Zimov, scienzato russo condirettore della Stazione di ricerca nord-orientale della Yakutia e fondatore del Parco del Pleistocene. @ANSA

Raccontare l’Artico, così come Libero Pensiero si è proposto di fare per approfondire più da vicino una delle principali sfide globali dei nostri tempi, significa anche narrare le ignote storie delle sue frontiere. Porre una luce in posti desolati, mediaticamente oscuri, che riesce anche solo difficile collocare su un planisfero. Figuriamoci nel nostro immaginario. Ciò che succede nell’Articolo, è il mantra, non rimane nell’Artico.

E’ una storia di frontiera, certamente, quella di Serghei Zimov: classe 1955, è un geofisico russo specializzato nello studio delle regioni artiche e subartiche, esperto di permafrost e condirettore – assieme a suo figlio Nikita Zimov – della Stazione scientifica del Nord-est, in Jacuzia, una delle più grandi al mondo e affiliata all’Accademia Russa delle scienze. E’ direttamente da lui che è arrivato l’allarme che sta trovando una certa risonanza sui media italiani, a proposito dello stato di salute dei ghiacci nell’estremo oriente russo e a nord del circolo polare: “la situazione è critica, abbiamo passato la soglia di stabilità: negli ultimi due anni infatti il permafrost ha iniziato a sciogliersi ovunque nella nostra regione”, ha riferito all’Ansa. “Se il trend continua di questo passo nei prossimi 10 anni il permafrost rischia di sparire del tutto. Le previsioni sostenevano che lo scioglimento sarebbe avvenuto fra 100 anni ma invece è già iniziato”.

Non il solito allarme: lo scioglimento del permafrost è già una realtà.

La denuncia di Serghei Zimov non è un allarme da prendere alla leggera e da declinare al futuro: lo scioglimento del permafrost – letteralmente “gelo permanente”, ovvero lo stato del terreno alle estreme latitudini della Terra, perennemente ghiacciato – è un presente con cui fare i conti, sta già avvenendo a ritmo dei cambiamenti climatici. Il permafrost, che occupa ben il 20% delle terre emerse e vicino ai poli può raggiungere profondità di centinaia e centinaia di metri non è da confondere con la banchisa o pack artico, il cui scioglimento è cosa ben nota e i cui effetti sono ampiamente studiati. Al contrario, cosa provocherà una sparizione dei ghiacci permanenti è ancora oggetto di studio.

Ciò che è certo, è che sotto gli strati di permafrost non si trovano solo i fossili di mammut meglio conservati della storia – come quello ritrovato nel 2010 lì vicino, in Siberia, sulla costa del mar di Laptev, mostrato con orgoglio a Mosca – ma enormi giacimenti di metano e altre sostanze altamente inquinanti, che se liberate in atmosfera aggraveranno di molto l’effetto serra già esistente e innescherebbero un ulteriore riscaldamento del pianeta. Una terribile deriva in cui l’inquinamento si rincorre e genera più inquinamento.

"Il permafrost rischia di sparire nei prossimi 10 anni": la resistenza artica di Serghei Zimov
Ghiaccio visibile sotto uno strato di terreno ghiacciato a Spitsbergen, Svalbard. fonte: SEPPFRIEDHUBER/GETTY IMAGES

Appena qualche mese fa, Sue Natali, ricercatrice del Woods Hole Research Center, in Massachusetts, e appena tornata da una ricerca in Siberia, ricordava alla BBC che nel permafrost ci sono circa 1500 miliardi di tonnellate di carbonio, il triplo di quanto conservato nelle foreste di tutto il mondo, “quel che la gente definisce una bomba di carbonio”. “Il 10% di questo ordigno verrà rilasciato sotto forma di anidride carbonica, come se un nuovo stato entrasse direttamente al secondo posto nella classifica tra i paesi più inquinanti.”

Ad aggravare il quadro c’è il timore che lo scioglimento del permagelo potrebbe contribuire non solo a innalzare il mar glaciale Artico, ma a raffreddare gli oceani, diminuendone al contempo la salinità e destabilizzando così le correnti oceaniche. In particolare la corrente del Golfo sarebbe compromessa, con effetti imprevedibili sul clima mondiale.

Una soluzione siberiana al Climate Change: ritornare al Pleistocene.

La storia di Serghei Zimov e di suo figlio Nikita è emblematica proprio perché i due scienzati, padre e figlio, vivono su una frontiera in cui stanno provando ad arrestare tutto questo. Come? Provando a ricreare proprio la steppa in cui vivevano i mammut, dove gli alberi sono i nemici e la tundra siberiana un’insospettabile alleata per provare almeno a mitigare i cambiamenti climatici.

Gli Zimov non sono solo condirettori della NESS, la Stazione scientifica del Nord-Est, ma portano avanti anche il pazzesco progetto del Parco del Pleistocene, distante pochi km dalla cittadina di Čerskij e fondato proprio da Serghei Zimov nel 1996, con una buona dose di follia. Obiettivo: ricostruire in toto l’ecosistema tipico del Pleistocene, il bioma in cui vivevano i mammut, con immense distese di praterie e ricco di fauna a brucarla. Altro che l’attuale ambiente ricco di alberi e zone paludose. Lo scopo, con incredibile successo: contribuire a diminuire il carbonio in atmosfera, contrastando l’effetto serra, e impedire lo scioglimento del permafrost.

"Il permafrost rischia di sparire nei prossimi 10 anni": la resistenza artica di Serghei Zimov
fonte: Pleistocene Park

“Sì, lo so, la gente in generale ama gli alberi. Ma il problema è che non servono a niente, perlomeno qui nell’Artico. Anzi, fanno più che altro danni… e sono la gioia delle zanzare”, rivela Nikita in un bel reportage dell’Ansa, primo media italiano a visitare il parco. “L’ecosistema del Pleistocene era così produttivo che gli alberi non sarebbero mai potuti diventare così densi. Anche a queste latitudini. Solo quando sono arrivati gli uomini, 13mila anni fa, l’avanzata degli alberi è iniziata”.

Soprattutto, è dimostrato che gli alberi, perdendo le foglie ed essendo più scuri, attirano di più il calore. Il manto erboso della steppa, al contrario, essendo più chiaro riflette meglio la luce, proteggendo decisamente meglio il permafrost: “Abbiamo condotto delle ricerche e la zona boscosa produce 160 watt di energia in più per metro quadro, rispetto alle aree del parco ricoperte di erba”. L’erba, inoltre, ha risultati sorprendentemente maggiori nell’immagazzinare Co2: “nell’Artico il terreno è freddo, le radici degli alberi non penetrano a fondo, i fusti non crescono molto e dunque i dati ci dicono che la capacità massima di ritenzione di carbonio, fuori dal terreno, è di 2 chilogrammi per metro quadrato. Le radici dell’erba, al contrario, vanno in profondità, riducono l’umidità, e grazie al processo della fotosintesi il manto erboso trasferisce l’anidride carbonica dall’atmosfera al suolo, dove resta imprigionata grazie al freddo. Per darvi un’idea della differenza” – continua Nikita Zimov – “considerate che l’ecosistema tradizionale artico trasferisce al suolo 10-16 chilogrammi di CO2 per metro quadrato. All’interno del primo recinto del parco, dopo 20 anni, i dati parlano di una media 26 chilogrammi al metro quadro, con punte di 65 chilogrammi. La potenzialità, stimiamo, è di ben 100 chilogrammi.”.

In altre parole, il parco del Pleistocene, che dispone anche di un sito web, ha dimostrato che l’importazione controllata di grandi mammiferi – Nikita ha personalmente trasportato renne e yak – aiuta la conservazione delle grande praterie erbose, fondamentali per diminuire il surriscaldamento e lo scioglimento del permafrost. In tempi in cui siamo perennemente circondati da allarmi climatici, in una situazione in cui le istituzioni fanno ancora troppo poco per contrastare e limitare il Climate Change, la storia del modello Zimov ci dimostra un bell’esempio di resistenza artica. Da sostenere e riprodurre.

Antonio Acernese

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