Nell’immaginario collettivo tipicamente occidentale del “thriller” e della letteratura horror rientra un capolavoro di importanza monumentale sull’evoluzione del pensiero sociale e della letteratura nel ‘900. Il Signore delle Mosche di William Golding rappresenta proprio il distacco e il mutamento sempre crescente di una generazione, quella del dopoguerra e del ’68, cresciuta in un clima di continuo agitamento politico e sociale; radici in cui la modernità è riuscita ad attecchire con indolente passività, esercitando sulle generazioni odierne la sua pressione tipicamente liberista.
Nel romanzo di William Golding si esamina da vicino la problematica sociale della psicologia infantile, dell’influenza della società sull’uomo e dell’innocenza ormai perduta: quello stesso destino che porta un gruppo di ragazzini a trovarsi perduti su di un’isola, lontani da qualsiasi contatto con la civiltà o con una presenza adulta. Il terrore, la paura, l’isolamento del pensiero, portano in grembo all’ingenuità e all’innocenza di Jack, di Ralph e di Piggy, di tutti quelli che con loro si incamminano in quest’avventura ai limiti del delirio, i semi di un destino comune, la presa di coscienza della società e di come siano strutturate le sue basi.
L’importanza che Il Signore delle Mosche detiene dal punto di vista culturale risiede nella saggezza del premio Nobel William Golding nel raccontare una storia per ragazzi senza filtri: raccontando l’innocenza dell’uomo denudato da ogni pregiudizio, di aver raccolto futuri adulti in uno spazio confinato e di averli lasciati liberi nello spazio di una pagina, di un libro pronto per essere letto d’un fiato. Una storia senza intermediari, in cui i protagonisti si comportano senza regole come la normalità della loro più fantastica immaginazione. La fanciullesca serenità che si trasforma nella realizzazione della paura, del dover fare qualcosa, qualcosa di utile alla sopravvivenza.
«Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere!» ripete Ralph, il leader, perchè effettivamente sapeva fare qualcosa: aveva imparato da Piggy come suonare dentro una conchiglia e (come nella delezuiana intepretazione del concetto di divenire) incarna la figura del capo della compagnia, chiamando adunate, “comitati“. Tiene in mano il destino di questa povera compagnia di bambini, lasciati a loro stessi, abbandonati alla natura e al mondo. La libertà delle regole, la libertà puramente anarchica, con una propria conoscenza storica e progressiva delle leggi e della moralità, si impone così nell’isola che prima era di nessuno. Quel territorio sconosciuto, racchiuso dal mare, che ora volevano chiamare casa.
In questo contesto di innaturale serenità si impone come la piega di Leibniz il volere del singolo, il divenire se stesso di Jack, un ragazzo che rappresenta il fulcro della narrazione di Golding. La figura di Jack, un ragazzo poco più grande degli altri, si forma nel rifiuto del suo passato, del misconoscimento di quel nome che non aveva scelto. Era libero, finalmente, e null’altro importava. Il Jack de Il Signore delle Mosche rappresenta il lato oscuro della luna di William Golding, una parabola alla scoperta degli istinti dell’uomo nel suo lato tanto opaco quanto lucente e reso visibile da una scrittura che non perde mai il ritmo, armonica nella sua folle bellezza.
L’attualità e la riscoperta del romanzo di William Golding è quanto mai necessaria in una modernità corrosa nell’inseguire un sogno corrotto, irrisoriamente deriso dalla natura dell’uomo: il liberismo sociale, quando imposto con regole economiche e politiche capitalistiche di sopraffazione di un uomo su tanti uomini, della continua divisione sociale, della trasformazione del lavoro in capitale, non può che divenire la conchiglia in cui risuonano le voci di tanti nessuno. Uno strumento utile per la classe borghese, nulla di più.
La paura di crescere, dunque, non risiede nell’isola, nella sua impassibile accoglienza, ma tra le fila di quelle piccole anime con il perenne bisogno di sopravvivere. Il Signore delle Mosche, seppur con una ingrata accoglienza, è riuscito ad imporsi nel panorama letterario del Novecento per essere riuscito ad avvicinare i ragazzi alla lettura, ad invogliare con il fare tipico di un horror i più giovani alla lettura di un testo scorrevole e mai banale, che trascina il lettore nell’universo parallelo del simile e del reale: l’irrazionalità greca nell’interpretazione del pathos che ci appartiene come umanità.
Niccolo Inturrisi