Il periodo giovanile vide il giovane Dante Alighieri dilaniato tra sospiri d’amore, un amore che ha segnato il suo intero processo di crescita, che all’inizio era ancorato alle teorie provenzali, alle idee di Cappellano, Guinizzelli e Cavalcanti, ma che poi si è completamento distaccato.
La figura di quest’importante autore è però fondamentale non solo per i suoi dolci versi dedicati a Beatrice ma, al contrario, si articola su più prospettive creando una vera e propria enciclopedia di tematiche medievali. Le più attuali sono di sicuro quelle politiche di cui Dante ci concede un primo assaggio nelle sue epistole. Politicamente attivo, ci ha lasciato un patrimonio di missive(relativamente vasto per i vari dubbi di paternità su cui i commentatori ancora discutono) utili agli storici per ricostruire vari avvenimenti passati. Tra le più famose le epistole ad Arrigo VII (nelle quali lo esorta a distogliere le sue energie da Cremona) e quella inviata ai cardinali italiani dopo la morte di Clemente V, caratterizzata dalla citazione biblica della Lamentazione di Geremia, presa in considerazione già per la lettere a Beatrice mai ritrovata.
La situazione del tempo era particolare, tanto da suggerire al Nostro di incentrare la grandiosa Divina Commedia su un viaggio allegorico di un pellegrino che (simbolo dell’umanità) cerca di estraniarsi dal peccato che corrode la sua realtà e purificare la sua anima. Questo simbolico percorso diviso in tre cantiche ha nel sesto canto di ognuna un momento di fermo in cui si lasciano in disparte gli argomenti di tipo filosofico, teologico, astronomico e si lascia invece spazio al tema politico. Il sesto canto del Purgatorio gira intorno a questa tematica che riesce a rispecchiarsi anche nel suo stile. Il componimento ha nel primo e ultimo verso la parola “dolore” che impreziosisce numerose metafore e gli dona una certa circolarità. Questa parola chiave è individuabile anche all’apostrofe all’Italia “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincia, ma bordello!”. A parlare è il trovatore Sordello, giullare e uomo di corte del XII secolo, qui portavoce del pensiero del Dante autore in un canto in cui la figura del Dante personaggio è pressoché eclissata. Tale apostrofe si trova al centro esatto del componimento, creando dunque una perfetta simmetria che ha come cuore la spiegazione di ogni male: l’Italia ormai è una schiava per la libertà perduta, oppressa com’è dai tanti tiranni, non più “donna” (dal domina di etimologia latina) di provincia, ma una prostituta (per metonimia). È ormai una nave senza guida, continua Sordello con un’immagine che ripercorre i passi dell’antica tradizione classica del viaggio e delle tormente, poi mutata nella metafora di un’Italia tramutata ad una cavalla senza freni e senza briglie, al cui galoppo si riconosce Alberto I d’Austria, uno dei primi sovrani ad averla abbandonata. La continua tensione creata dalle minuziose descrizioni si sfata con due caldi abbracci che Sordello scambia con Virgilio. L’incarnazione della ragione assume qui altri due importanti simboli: la fratellanza, l’amor di patria (i due poeti in vita erano entrambi di Mantova) e l’elevazione dell’arte e della poesia che rende immortale ogni cosa.
In questo canto, come anche in numerosi altri versi sparsi nella Commedia, tutte le responsabilità sono state accollate alla Chiesa conferita di un potere spirituale e temporale e ormai sede di corruzione.
Nell’opera “La Monarchia” Dante vuole analizzare la situazione con varie spiegazioni trattate in chiave filosofica. L’autore si chiede se è necessario l’Impero per il buon ordinamento del mondo e, quindi, per la pace universale. La risposta è affermativa e, nel secondo libro, diventa la base per elogiare l’impero romano caratterizzato da quei valori ormai inesistenti. Esso inoltre prevalse per un disegno provvidenziale, come se Dio avesse voluto regolare la terra come fa con i cieli che si muovono per suo volere (secondo l’antica filosofia tolemaica). Il terzo libro infine affronta il punto cruciale: il rapporto tra papa e imperatore. Ai vari quesiti che si è posto è sceso a determinate soluzioni che prevedono che la Chiesa, essendo nata dopo l’impero, non può considerarlo suo oggetto. A consolidare questa tesi sono inoltre le parole dello stesso Gesù che “non aveva cura del regno quaggiù”.
Alessia Sicuro