Il caso preso in analisi è l’emendamento al DdL della Pubblica Amministrazione secondo cui, come riporta il Corriere della sera (3 luglio 2015)
“Nei concorsi pubblici a fare la differenza non sarà più solo il voto di laurea, ma potrà contare anche l’università. Così un emendamento, appena approvato, al disegno di legge della Pubblica amministrazione in discussione in commissione in seconda lettura alla Camera, che parla di superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso» e «possibilità di valutarlo in rapporto ai fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato”.
Va interpretato, forse, come una presa di coscienza sul fatto che in un paese formalmente democratico, il livello di istruzione resta ineguale e che il dislivello è talmente evidente da poter sbarrare la strada anche in un eventuale concorso pubblico.
Sono partite subito le polemiche sul web e sui social network tra chi ritiene che sia sacrosanto e chi ritiene che sia uno scempio.
Gli spunti di riflessione sono molteplici:
– valorizzare chi ottiene il 110 e lode in Università in cui è molto difficile prendere voti alti;
– distinguere gli atenei in Eccellenti e Mediocri, serie A e serie B;
– calcolare il tutto in base ad un coefficiente.
Questa è la ricetta per la meritocrazia secondo il governo. Nessuno prende in considerazione quanto sia difficile dover seguire in un’aula insieme ad altre 200 persone e, nella peggiore delle ipotesi, per ovviare a questo problema si pensa a limitare le iscrizioni attraverso il numero chiuso.
“si introduce l’abolizione del valore legale del titolo“
Così come afferma un docente dell’Università RomaTre, con seri dubbi sulla costituzionalità del disegno di legge. “Non è così – frena la senatrice dem Francesca Puglisi – questo emendamento verrà corretto in aula.”
L’unico via libera arriva da Elena Centemero, responsabile scuola e università di Forza Italia: “Qualsiasi iniziativa che, nel campo dell’istruzione, premi la qualità e valorizzi il merito non può che vedere Forza Italia favorevole”.
Il problema è più politico che metodico: come al solito si pensa a risolvere il problema dell’istruzione gerarchizzando i luoghi della formazione e classificandoli in serie A e serie B, invece di pensare ad un piano di finanziamenti e progetti in grado di riequilibrare gli atenei che attualmente non raggiungono la soglia apprezzabile. È indubbio che ci siano luoghi in cui ci si laurea con il massimo delle abilità (e neanche più di tanto rispetto agli standard europei) e luoghi in cui non vengono neanche aggiornati i programmi di studio. L’Università, però, ha il compito di sfornare talenti, privata o pubblica che sia.
Introducendo il TeCo (prove invalsi universitarie) si cerca di indagare su quale sia il livello di istruzione degli studenti presenti in quel determinato ateneo e nulla cambierebbe di fatto. Verrebbero avvantaggiate sempre e solo le Università del centro-nord e quelle private, costruendo un meccanismo a due velocità in cui chi per problemi personali o, in maniera generica, economici, ma con capacità ed acume, volesse raggiungere un livello elevato in materia di apprendimento, dovrebbe rassegnarsi agli atenei ritenuti mediocri.
Il criterio ovviamente non è oggettivo e cela delle lacune. Si instaurerebbe un meccanismo competitivo senza eguali tra gli studenti, che ricorda molto quello che assumerebbero i docenti per poter entrare nella rosa degli aventi diritto allo scatto triennale e non più di anzianità.
Quella che si prevede è una guerra tra poveri in cui chi è indietro continuerà a rimanere indietro senza incentivi, anzi con minori chances di poter emergere dalla condizione in cui attualmente si ritrova.
Secondo le stime, il Sud non ha speranze:
L’ultima classifica è la U-Multirank, un database creato dall’Ue per mettere a confronto le università del mondo secondo 31 indicatori. Il responso vede sul podio la Bocconi, il politecnico di Milano e Trieste. In fondo, Cassino, Messina e Reggio Calabria. I primi atenei italiani secondo il QS World University Rankings 2014/ 15 sono Bologna, al 182° posto, la Sapienza (202) e il politecnico di Milano (229). La Federico II di Napoli figura al 345° posto, mentre Catania è oltre la 700ma piazza. A livello nazionale l’Anvur ha certificato la qualità della ricerca. Padova è prima dei mega atenei, tra le medie università al top c’è Trento, Urbino è ultima.
In uno studio non recente, ma unico nel genere, lo statistico Andrea Cammelli e il sociologo Giancarlo Gasperoni sottolineano le differenze. A Medicina a Messina oltre la metà dei laureati aveva preso un voto elevato (almeno 92/ 100) alla maturità; nella stessa facoltà a Genova, al contrario, solo un laureato su sei aveva raggiunto lo stesso traguardo. Insomma, la polemica non si placa.
In realtà, nulla di nuovo sotto il sole, visto che in altri paesi esiste già una netta distinzione tra gli atenei. In Gran Bretagna ad esempio, esistono università college dai costi proibitivi a cui accedono solo le famiglie più abbienti e che danno sbocchi professionali più consistenti delle altre. E poi, a ben pensare, l’abolizione del valore legale dei titoli di studio è una questione già vista in Italia, dato che già nelle carte del vecchio Piano di Rinascita Democratica si leggeva, tra i provvedimenti economico-sociali l’invocata “abolizione della validità legale dei titoli di studio per sfollare le università”.
Sara C. Santoriello