Il dramma delle spose bambine
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Un recente rapporto dell’Unicef ha messo in luce la drammaticità di un fenomeno che non accenna ad arrestarsi, quello dei matrimoni precoci, più comunemente conosciuto come il fenomeno delle “spose bambine“. Si stima, infatti, che nel mondo siano circa 640 milioni le ragazze date in moglie in età non consentita o comunque non ritenuta idonea. L’area maggiormente interessata e che costituisce il 45% del fenomeno è quella dell’Asia meridionale, in particolare Bangladesh, India e Nepal. In questi paesi, una donna per contrarre matrimonio deve avere dai 16 ai 20 anni, tuttavia molte famiglie decidono di anticipare l’evento per motivi culturali o economici. Nel primo caso – essendo, queste, comunità fortemente patriarcali – il matrimonio rappresenta il modo più semplice per allontanare la donna dal contesto sociale, garantendo così la totale obbedienza all’uomo; inoltre, si pensa che attraverso il rito del matrimonio si possa preservare più a lungo la purezza della giovane. Nel secondo caso, invece, si sceglie di “offrire” la propria figlia in cambio di denaro o per avere meno bocche “da sfamare”. Una conseguenza, questa, della povertà causata dall’impatto della crisi climatica e della siccità. Soprattutto nelle zone rurali ove prevale la povertà e nelle aree maggiormente esposte a disastri naturali, gli uomini con fatica riescono a dedicarsi alla propria attività che rappresenta l’unica fonte di sostentamento per la maggior parte delle famiglie. Si verificano quindi condizioni di estrema povertà che spinge il capofamiglia a dover sacrificare la propria figlia, generalmente la maggiore.

Bangladesh
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Enat, giovane etiope di 13 anni, ha contratto matrimonio con un uomo ben più grande di lei a seguito dell’assenza di acqua e foraggio che hanno causato la morte degli animali del capofamiglia, non più in grado di sostenere sua moglie e i loro sette figli. «Ho protestato, ho implorato, ho pianto… ma non c’è stato niente da fare. (…) Non era rimasto niente da mangiare; era l’unica soluzione. Con il regalo di nozze, un po’ di bestiame, sono stati in grado di comprare mais e sorgo (un cereale appartenente alle graminacee) per sfamare il resto dei miei fratelli e sorelle. (…) La cosa più difficile per me è stata lasciare la scuola, perché mio marito non voleva che continuassi. Io vorrei diventare un medico. La mia famiglia ha sofferto molto a causa della carenza di servizi sanitari in campagna. Per questo, avrei voluto aprire una clinica per prendermi cura della mia famiglia e della mia comunità. (…) Spero che Dio o qualcuno mi aiuterà, per avere una seconda chance di tornare a scuola e diventare una dottoressa.»

«Questi matrimoni impediscono alle ragazze di imparare, mettono a rischio la loro salute e il loro benessere e compromettono il loro futuro» ha affermato Noala Skinner, direttore regionale di Unicef Asia. La violenza sulle donne è infatti un fenomeno complesso che comprende «ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà» come recita l’articolo 1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne delle Nazioni Unite, approvata nel 1993. Le famiglie non conoscono e talvolta non considerano le conseguenze che i matrimoni precoci possono avere sulla vita di una bambina o di una giovane ragazza. Particolarmente vulnerabili dal punto di vista fisico e psichico, in primo luogo interiorizzano l’idea di avere un solo destino, quello di di annullarsi per volere del patriarca e di uomo di cui spesso si conosce solo il nome. In secondo luogo, sono spesso costrette a subire violenze domestiche e abusi sessuali che possono dar luogo a gravidanze indesiderate cui spesso fanno seguito eventi di mortalità materna e/o infantile. Nelle zone rurali, ad esempio, la pandemia ha causato un drastico aumento (circa il 40%) di abusi e gravidanze precoci. Inoltre, essendo private della possibilità di completare il ciclo di studi, non è loro consentito partecipare attivamente alla vita pubblica, di comunità, né è possibile emanciparsi in un contesto lavorativo, rimanendo quindi escluse dalla possibilità di rappresentare un contributo alla crescita economica e sociale del Paese.

Sposa bambina di 15 anni
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«A 13 anni, quando frequentavo la scuola primaria mi hanno obbligata a sposare un uomo molto più grande di me, di 30 anni. Ho vissuto con quest’uomo per un po’ ma non andavamo d’accordo per la differenza di età. Ho provato a scappare molte volte, ma ogni volta, mio padre mi riportava da lui. Non avevo scelta se non accettare tutto questo. Dopo un po’ sono rimasta incinta, e lui ha cercato di picchiarmi. Ho provato a scappare due volte ma mi hanno sempre riportata da lui. Poi l’ho lasciato per sempre.» Questa è la storia di Aisha, sposa bambina che ha trovato il coraggio di fuggire da quella realtà. Oggi afferma di non sentirsi in grado di riprendere gli studi e recuperare gli anni persi, ma spera di poter imparare un mestiere e un giorno lavorare.

Ma Aisha non è stata la sola sposa bambina a liberarsi dalle catene del matrimonio forzato. «Sono nata nel 1970 nel Sindh, in un villaggio rurale di 200 case. (…) In casa eravamo una figlia e tre figli maschi. Da bambina desideravo tanto andare a scuola, ma il mio sogno si è frantumato davanti alla tradizione locale per la quale le donne non hanno bisogno di uscire di casa e cercare un’istruzione. Mi sono dovuta sposare all’età di 12 anni.» Così ha origine il percorso di Ghulam Sughra Solangi che a 20 anni è stata poi abbandonata da quel marito che era stata costretta a sposare, accusata di essere analfabeta e poco attraente. Subito dopo il divorzio, Sughra è tornata nel suo villaggio assieme ai suoi due figli e ha deciso di opporsi a quel sistema maschilista e patriarcale che da sempre aveva respirato. È stata la prima ragazza della sua comunità ad ottenere il diploma di scuola superiore, e la prima insegnante in una scuola femminile. Oggi è una famosa attivista per i diritti delle donne e delle bambine: nel 1994 ha fondato la Marvi rural development organization (Mrdo), una ong che lavora per promuovere i diritti umani, la salute, l’istruzione, rafforzare il ruolo della donna, e nel 2011 ha ricevuto negli Stati Uniti il premio International women of courage (donne coraggiose nel mondo).

Negli ultimi dieci anni la percentuale di spose bambine è diminuita del 15% e questo corrisponde a 25 milioni di matrimoni evitati, tuttavia rimane ancora una strada lunga da percorrere. Milioni di bambine e giovani ragazze sono state obbligate, nel corso del tempo, a vivere una vita imposta da coloro che dovrebbero proteggerle e salvaguardare la loro integrità psico-fisica. Sono invece costrette a fare i conti con i loro sogni distrutti ed un futuro già scritto da altri. Cresciute troppo in fretta, abbandonate a sé stesse tra le mura di un luogo che non può definirsi “casa”. È importante quindi che il lavoro di riscatto sociale per queste donne abbia luogo su più fronti e interessi l’intero sistema. In particolare, è opportuno salvaguardare il contesto scolastico: se da un lato la scuola è per antonomasia il luogo dell’apprendimento, e attraverso l’istruzione si possono ottenere maggiori possibilità sul piano socio-culturale e lavorativo, dall’altro lato la scuola è anche il luogo dove le relazioni sociali nascono e si consolidano. È quindi dai giovani che bisogna partire se si vuole raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo, se si vogliono formare adulti capaci di conservare le tradizioni culturali (della purezza o della famiglia, ad esempio) rispettando l’altro, la sua libertà ed autodeterminazione.

Aurora Molinari

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