Sale a 14 il numero delle vittime causate dall’esplosione di un vagone nella metropolitana di San Pietroburgo, oltre a 45 feriti di cui 13 in gravi condizioni. Secondo i servizi di sicurezza kirghisi (GKND), che collaborano con le autorità russe, il nome dell’attentatore è Akbarzhon Jalilov, cittadino russo di origine kirghisa .
L’attentato avvenuto a San Pietroburgo, nel pomeriggio di lunedì, su un vagone della metropolitana, non era tuttavia l’unico programmato dall’attentatore: le autorità sono riuscite infatti a disinnescare un secondo ordigno, piazzato alla fermata di Ploshchad Vosstaniya. Si trattava di una bomba ben più pericolosa, quasi un chilo di tritolo, di quella che è deflagrata sul vagone della linea blu della metropolitana di San Pietroburgo. Le autorità russe hanno ricondotto i due ordigni alla stessa matrice di fabbricazione a causa della presenza su entrambi di “elementi lesivi”, ovvero chiodi mozzati o altri utensili che vengono aggiunti alla costruzione della bomba per massimizzarne i risultati.
Tuttavia, il meccanismo di innesco dell’ordigno che è stato rinvenuto in un estintore vicino alla fermata di Ploshchad Vosstaniya doveva essere attivato tramite un telefono cellulare invece che da un meccanismo ad orologeria. Questo particolare non può far escludere agli inquirenti la considerazione oggettiva che anche la prima bomba, quella utilizzata dall’attentatore nella metropolitana di San Pietroburgo, potesse essere attivata a distanza. Le autorità russe sono comunque convinte che ad agire sia stato un solo uomo.
Il Comitato Investigativo russo ha poi confermato di aver lanciato due indagini formali per l’accaduto: una per terrorismo ed un’ulteriore in base all’articolo 223, che sanziona la produzione di esplosivi e ordigni.
È stato sottolineato dalle autorità russe la volontà di tenere in considerazione e vagliare tutte le probabili ipotesi, anche se gli inquirenti stanno già lavorando ad una pista che riconduce l’attentato ad una matrice islamica o nazionalista. Il Comitato Investigativo russo, in un primo momento, ha ritenuto attendibile la notizia trasmessa dai media russi sull’identità dell’attentatore: un uomo ripreso dalle telecamere di sicurezza, con la barba folta tipicamente islamica e un abito nero. Il sospettato si è presentato successivamente davanti alle autorità competenti, dichiarando di essere estraneo alla vicenda.
Nel pomeriggio di martedì è stata resa pubblica l’identità del reale sospettato per l’attentato: Akbarzhon Jalilov, nato ad Osh nel 1995.
Il DNA di Jalilov è stato rinvenuto nella borsa che conteneva il secondo ordigno, quello inesploso, ma è riuscito ad essere ricollegato all’attentato soprattutto grazie alla stretta collaborazione tra i servizi di sicurezza kirghisi e quelli russi. Il Kirghizistan, difatti, è un piccolo stato dell’Asia centrale che conta quasi sei milioni di cittadini. Oltre a sostenere la politica estera del governo di Mosca, è anche uno dei suoi più stretti alleati militari, ospitando sul proprio territorio una delle più importanti basi militari russe sul continente asiatico.
Il Kyrghizistan, come molte repubbliche dell’Asia centrale ex-sovietica, è considerato economicamente “povero”: i kirghisi rappresentano il 73% della popolazione ma vi sono consistenti minoranze di uzbeki e russi. La maggioranza degli abitanti è di fede musulmana, quasi il 90% ma, dopo i conflitti che hanno caratterizzato molte regioni dell’Asia centrale dalla fine degli anni 90 ai primi anni del 2000, è stata rilevata una crescente presenza di estremismi di matrice islamica. Come riporta un articolo del The Guardian, molti cittadini di questi paesi hanno aderito alla causa dello Stato Islamico, andando a combattere in Siria, e una parte di loro sarebbero stati reclutati proprio nelle strade di Mosca.
Niccolò Inturrisi