Il 6 novembre negli Stati Uniti si torna al voto due anni dopo l’elezione di Donald Trump. I Repubblicani rischiano di perdere il Congresso, ma le midterm elections ci proiettano già alle presidenziali del 2020.
“They’re puppets. I’m the only non-puppet in the group”. Così il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump descriveva nel 2015 i suoi avversari alle primarie repubblicane. Allora l’egocentrismo quasi caricaturale, il politically incorrect assurto a strumento di lotta politica e il disprezzo per gli avversari fecero la fortuna del Trump outsider, che fece capitolare uno dopo l’altro una sfilza di politici più quotati di lui. Oggi alla vigilia delle midterm elections la situazione si è ribaltata: Trump siede nello Studio Ovale, e in attesa del 2020 i Democratici hanno una prima occasione per cambiare le cose. Come? Portandogli via il Congresso.
Per cosa si vota
Negli Stati Uniti si va alle urne, infatti, per eleggere tutti i 435 membri della Camera dei Rappresentanti, e 35 dei 100 senatori. Al momento Casa Bianca, Camera e Senato sono in mano ai Repubblicani, in un’armonia che come è noto è poco più che apparente, dati i malumori suscitati da Trump ai piani alti del suo partito. Tuttavia, meglio un compagno di partito sgradito in casa che un democratico all’uscio, quindi il GOP ha tutte le intenzioni di dimostrare compattezza e unità d’intenti per mantenere entrambe le camere.
Come stanno le cose oggi
Il Partito Repubblicano controlla 235 seggi alla Camera. Dei restanti duecento, 193 appartengono ai Democratici e 7 sono vacanti. Al Senato, invece, la situazione è più equilibrata: il partito dell’elefante ha la maggioranza con 51 membri, mentre de facto i voti a disposizione dell’asinello sono 49 (47 iscritti al partito e due indipendenti di sinistra, tra cui Bernie Sanders).
Cosa dicono i sondaggi
Per quanto i Repubblicani possano provarci, l’avversario principale – prima ancora del Partito Democratico – resta la storia. Solo tre volte nella storia il partito del Presidente degli Stati Uniti ha aumentato i propri seggi in entrambe le camere alle midterm elections, e non sembra che martedì la tendenza verrà invertita, né questo è l’obiettivo realistico del partito di governo. Anzi, sarebbe già un miracolo perdere qualche seggio alla Camera ma conservare la maggioranza. D’altronde, Trump resta uno dei Presidenti meno popolari di sempre e il Russiagate non ha migliorato la situazione.
Stando ai sondaggi, infatti, è probabile che il Partito Democratico riesca a recuperare i seggi necessari per ottenere il controllo della Camera. Certo, i risultati del 2016 hanno incrinato la credibilità delle previsioni elettorali, ma per i più scettici parlano i fatti. Un anno fa i Democratici hanno conquistato un seggio alle elezioni suppletive per il Senato in uno Stato tradizionalmente conservatore come l’Alabama, che non eleggeva un senatore democratico da quasi trent’anni. È una spia da non ignorare: se la dicotomia tra red states e blue states non è al capolinea, poco ci manca, e queste midterm elections potrebbero accelerarne il declino.
Più rosea per il GOP la situazione in Senato. Il mandato dei senatori dura sei anni, quindi si vota per sostituire gli eletti del 2012, quando grazie alla popolarità di Obama i Democratici conquistarono seggi in diversi Stati nei quali Trump ha poi stravinto nel 2016.
Camera democratica e ipotesi impeachment
Ma il Senato, da solo, servirebbe a poco. Conquistando la Camera, i Democratici potrebbero di fatto arrestare l’attività legislativa, che negli scorsi due anni si è fermata solo per dissidi interni al partito di governo.
Decisamente più improbabile la realizzabilità dell’impeachment di Trump, paventata da una parte della stampa. È vero che una Camera a maggioranza democratica potrebbe votare la proposta, ma senza i voti dei due terzi del Senato – impossibili da ottenere anche se i Democratici stravincessero martedì – si arenerebbe tutto.
Come stanno i Democratici
In occasione delle midterm elections concentrarsi sullo stato di salute del partito all’opposizione è relativamente superfluo. Un eventuale successo dei Democratici dipenderebbe in gran parte dallo scarso gradimento di Trump e del suo operato. Un dissenso generalizzato diretto al governo, privo di una corrispondente pars construens, è più che sufficiente in questa fase per prendere voti, e questo segna un punto a favore per chi promuove la retorica delle elezioni di metà mandato come referendum sul Presidente in carica.
Tuttavia, il voto di martedì non guarda solo al biennio appena trascorso, ma anche a quello che sta per iniziare, e che aprirà la strada alla campagna elettorale per le presidenziali del 2020. Qui, infatti, si apre lo scontro tra le due anime che si contenderanno la candidatura democratica alla Casa Bianca: liberal contro socialdemocratica (o addirittura socialista, per chi ama polarizzare ogni confronto chiudendo un occhio sulla realtà). Insomma, lo scontro tra Clinton e Sanders in occasione delle ultime primarie si ripropone come scontro tra visioni del partito.
I liberali accusano i “sandersiani” di allontanare gli indecisi, mentre questi ultimi – tra cui spicca la newyorkese Ocasio-Cortez, che potrebbe diventare la più giovane parlamentare della storia americana – imputano all’establishment del partito di aver spinto la middle class tra le braccia dei Repubblicani. Certo, oggi questa polemica è in stand-by pre-elettorale così come quella tra Trump e i dirigenti repubblicani, ma è probabile che i dissidi interni esploderanno di qui a pochi mesi quando si inizierà a parlare di candidati per la Casa Bianca e le frange più radicali dei due partiti premeranno per emergere.
In sintesi, istruzioni per l’uso per interpretare l’esito delle midterms elections: un voto sul presente degli Stati Uniti, sì, ma con uno sguardo sul futuro, già proiettato a un appuntamento che è molto meno lontano di quanto sembri.
Davide Saracino