Il guru del rock: Peter Gabriel

Se Peter Gabriel, già leader dei Genesis tra la seconda metà degli anni 60 e la prima metà degli anni 70, aveva saputo creare una particolare forma di art-rock progressive dalla forte componente teatrale, da solista, non è stato da men. Alla continua ricerca dell’integrazione tra rock, elettronica e world music, realizzando dischi innovativi e sperimentali, destinati a lasciare un solco profondo sulle generazioni successive.
Come artista si è contraddistinto in ambito sociale e politico oltre che musicale, autore di opere e spettacoli teatrali, ha inoltre contribuito, attraverso la sua etichetta Real World, a dar voce a musicisti “etnici” provenienti da ogni angolo della terra con una particolare attenzione al Terzo Mondo.
Lasciati i Genesis proprio al culmine della loro fama, Gabriel inizia la sua lunga carriera solista a partire dall’omonimo album del 1977 intitolato semplicemente Gabriel I. Il disco è prodotto da Bob Ezrin e impreziosito da musicisti stellari come Robert Fripp e Tony Levin, importante quest’ultimo per la collaborazione con Yes ed i King Crimson. Nella splendida copertina Gabriel è ritratto in macchina sotto la pioggia, immagine elegante e malinconica in linea con lo spirito del disco.
Musicalmente, sono evidenti ancora tracce dei Genesis, ci sono passaggi sonori solenni e impetuosi ma in generale il sound cambia, con melodie più elettroniche e meno barocche, con la voce inconfondibile di Gabriel sempre in primo piano.
Alla vicenda dell’addio ai compagni di viaggio allude, indirettamente, in “Solsbury Hill”, un brano che, secondo le parole dello stesso musicista, riguarda il tema della perdita, della rinuncia a qualcosa. Molto più rock sono “Slowburn” e l’aggressiva “Modern Love”.
Ma il bello arriva ed ha un nome: “Here Comes The Flood”, griffata dalla chitarra immortale di Fripp, una commovente ballata, con una flebile base di organo a supportare la voce morbida di Gabriel.

Gabriel II

Il leader dei King Crimson è anche l’ispiratore del secondo disco, Gabriel II. Sulla copertina c’è Gabriel intento a graffiare con le unghie una sua immagine. Il disco abbandona le sonorità ncora di più le progressive a favore di suoni più scarni e urbani. Nessuna traccia diventerà una hit, ma non mancano cose interessanti, grazie anche all’uso del Fairlight, il synth-computer che caratterizza gran parte degli arrangiamenti.
Il lato più morbido e sentimentale di Gabriel si esalta nella fragile ballata “Mother Of Violence”, che nasce come una canzone natalizia scritta assieme alla compagna Jill per le loro bambine e per la chiesa locale, un inno contro ogni forma di violenza. Commovente anche la malinconia di “Indigo”, dove Gabriel, accompagnandosi solo al piano, riflette sulle tentazioni di mollare, di abbandonare la vita, sopraffatti dalle delusioni e dalle frustrazioni. Un tema sul quale tornerà qualche anno dopo, nell’epico duetto di “Don’t Give Up” con Kate Bush.
Il vertice del disco è però la complessa “White Shadow”, don il basso pulsante di Levin, tra tamburi e tastiere sommesse, con la chitarra fulminante di Fripp. Curiosamente, nell’edizione in vinile, la canzone, posta alla fine del primo lato, proseguiva anche sui solchi a spirale che chiudevano il disco e sul cerchio terminale, costringendo l’ascoltatore ad alzare il braccio del giradischi dal solco.

Il disco divide i fan. È un “graffio” coraggioso a tutte le leggi non scritte del music business. C’è chi resta spiazzato, ma anche chi, per la vena sperimentale che lo pervade, arriva a considerarlo il lavoro più vicino ai complicati esperimenti sonori dei Genesis, in particolare quelli di The Lamb Lies Down on Broadway.

Gabriel III

Installato il suo quartier generale in una vecchia villa vicino a Bath, Gabriel da libero sfogo alla libertà creativa, sperimentando nuovi modi di produrre musica. Nasce un capolavoro assoluto, Gabriel III (1980) e sulla copertina c’è il viso del musicista in dissoluzione. Ingaggia il chitarrista David Rhodes, destinato ad accompagnarlo a lungo e chiama alla console il produttore Steve Lillywhite, nuovo astro nascente del Regno Unito, già al fianco di Ultravox e Xtc e prossimo alla collaborazione con gli U2. Una scelta di continuità, essendo un seguace di Brian Eno, che veva contribuito con alcuni effetti a “The Lamb Lies Down On Broadway”.
Le melodie non mancano, ma l’accento è posto soprattutto sul ritmo. Oltre a una drum machine brillano due batteristi d’eccezione come Jerry Marotta e l’ex-compare Phil Collins. Quest’ultimo utilizza un set di batteria e percussioni totalmente privo di piatti e, assieme al sound engineer Hugh Padgham, sviluppa un nuovo suono, duro, potente e compresso, ricorrendo per la prima volta su “Intruder” anche al gated reverb, un caratteristico effetto sul riverbero della batteria, che avrebbe poi riproposto nella sua immortale hit “In The Air Tonight”.
Il risultato è una serie di canzoni elettroniche sul futuro dell’umanità, con il tema dell’alienazione e della malattia mentale a ricorrere trasversalmente. C’è “Intruder” e “No Self-Control” con il batterista dei Genesis in evidenza. Sono ancora le percussioni, unite a chitarre distorte, sintetizzatore e Fairlight, a dominare “I Don’t Remember” e la splendida ballata “Family Snapshot” – basata sul racconto “An Assassin’s Diary” di Arthur Bremmer, l’uomo che tentò di uccidere il politico segregazionista George Wallace.
Non meno emozionante è “Games Without Frontiers”, filastrocca che ironizza sui comportamenti infantili dell’umanità e sulla “guerra senza lacrime” del celebre format televisivo “Giochi senza frontiere”. Con i vocalizzi acutissimi di Kate Bush, alla sua prima collaborazione con l’amico Peter.
Il disco chiude con una struggente ode a “Biko”, martire della battaglia contro l’apartheid in Sudafrica. Una versione dal vivo del brano, registrata nel luglio del 1987, sarà impiegata nella colonna sonora del film “Grido di libertà” di Richard Attenborough, sulla vita di Stephen Biko, mentre in Sudafrica il brano sarà censurato fino alla fine del regime.
È l’album decisivo per Gabriel ,arriva il grande successo internazionale e l’ex-cantante vestito da fiore si trasforma anche in una delle più potenti e credibili rockstar politiche della scena internazionale.

IV

Il successivo IV – passato alla storia anche come Security vuole essere il personale contributo di Gabriel in favore delll’identità, la libertà, l’uguaglianza in mezzo mondo. Il brano simbolo è “San Jacinto”, un luogo immaginario, una finzione artistica; l’angoscia della battaglia tra due eserciti invasori di una terra non loro: tutte queste immagini si fondono nelle ermetiche strofe di “San Jacinto” e narrano tutto il dramma di una civiltà millenaria cancellata in un attimo, spazzata via come il bisonte dalle sue praterie.
“Wallflower” invece affronta il tema dei Desaparecidos sudamericani ed è un manifesto artistico. Un uomo, un musicista che non vuole arrendersi alla decimazione della ricchezza culturale del mondo per mano della società occidentale. Era il 1982: due anni prima, Gabriel aveva dato vita al WOMAD (World of Music, Arts and Dance), festival indipendente per la promozione della diversità culturale tramite la musica. Nel 1989, fonderà la Real World Records, ancor oggi casa di una lunga serie di progetti dove artisti di tutto il mondo e di ogni estrazione musicale possono lavorare fianco a fianco. Per questo motivo i dischi Real World sono coraggiose esplorazioni musicali che partono da background tradizionali abbracciando i più recenti strumenti espressivi. E proprio “IV” è in primissima linea nella sperimentazione sonora, sia come strumentazione che per le strutture compositive.

“IV” sviluppa inoltre innovazioni già introdotte nel precedente album. “I Have The Touch”, “The Family And The Fishing Net”, Lay Your Hands On Me” perfezionano l’uso del gated drum messo a punto per “Intruder”. Il sound del disco è reso ulteriormente dinamico dall’impiego da parte del bassista Tony Levin del Chapman stick, strumento a dieci corde che è suonato in modo percussivo con la tecnica del tapping.

L’album è il racconto della nostra specie, le sue usanze e le reazioni inconsce: un animale divorato dall’istinto in “Shock The Monkey”, che cerca la fiducia del branco e il contatto fisico in “I Have The Touch” e “Lay Your Hands On Me”, svela rituali matrimoniali in “The Family And The Fishing Net”, attratto dalla musica in “The Rhythm Of The Heat”, colto dalla trance in “Kiss Of Life”, condotto in paradiso dal dolore, le visioni naturali e i synth cristallini di “San Jacinto”.

IV vende milioni di copie, conquista il mercato americano – dove sarà stampato col titolo “Security” grazie al singolo “Shock The Monkey”, eserciterà un’enorme influenza su molti altri territori musicali grazie al suo rivoluzionario uso della strumentazione. Ma la sua unicità sta altrove. Più dei testi, più ancora dei suoni è forse un’immagine a simboleggiarla nel modo più efficace: il volto del cantante dipinto con le fattezze di una scimmia. Una maschera bestiale che si contorce, geme, strilla, esulta alla vista dei suoi simili, in un groviglio di emozioni incontrollate che più di ogni altra cosa svela la natura – profonda, comune, immortale – delle nostre radici.

È in questo periodo che Gabriel inizia anche a comporre colonne sonore per il cinema. Una delle più ambiziose è quella incisa per Birdy di Alan Parker (1985), insieme a Jhon Russell (uno dei padri della world-music), Larry Fast, David Rhodes e Tony Levin.

Il ritorno in studio

Considerato da tutti un profeta del rock politico e della world music, Gabriel si avvicina a sorpresa al pop, supportato in cabina di regia da Chris Hugues e Daniel Lanois. Ed è ancora un capolavoro.
Il valore di un artista non si misura solo nel suo campo artistico, ma anche nella capacità che ha spaziare e Gabriel in questo senso si conferma incapace di creare prodotti banali e scontati. Ascoltare per credere l’iniziale “Red Rain”, con Stewart Copeland alla batteria e un stile un suono mai così complesso e stratificato,
Leggera la hit “Sledgehammer”? Forse sì, ma è quell’inflessione rhythm’n’blues che fa la differenza, con quel flauto e un ritmo che è esso stesso un martello. Poi c’è “Big Time” quella ritmo sincopato, che deraglia impazzito. Nei video, Gabriel si mantiene saldamente all’avanguardia, partorendo clip bonsai velocizzate e stranianti, che ricorrono a tutti i più avanzati trucchi d’animazione dell’epoca, con le creazioni in plastilina di David Daniels.
Capita poi di incontrare un Gabriel più “intimo” che si siede al piano per la maliconanica “Mercy Street” che abbraccia Kate Bush nella immortale “Don’t Give Up”. L’intensa “In Your Eyes”, dove l’amore per la propria donna si mescola a quello per Dio – come da tradizione africana – arricchita dai vocalizzi di Youssou N’Dour e Ustad Nusrat Fateh Ali Khan, contributi preziosi come quello di Laurie Anderson nella paranoica “This Is The Picture”. Tecnologia elettronica, melodie pop e suoni etnici si fondono in un disco che resterà una pietra angolare del pop del decennio.

A completare una stagione magica, arriva un altro capolavoro, una nuova colonna sonora, Passion (1989), che raccoglie le musiche per il film di Martin Scorsese “L’ultima tentazione di Cristo”. Un’opera monumentale, in cui Gabriel attinge a un’infinità di suoni folk, originari soprattutto dell’Asia e dell’Africa, rielaborandoli in studio. Collaborano alla realizzazione del disco musicisti provenienti da paesi lontani quali Pakistan, Turchia, India, Costa d’Avorio, Egitto, Bahrain, Nuova Guinea, Marocco, Senegal e Ghana. Spiccano, in particolare, il violino di Shankar, il flauto turco di Kudsi Erguner, le tabla di Hossam Ramzy, le percussioni di Fatala, il doudouk armeno di Vatche Housepian e Antranik Askarian, i vocalizzi di Nusrat Fateh Ali Khan, Youssou N’Dour e Baaba Mal.
Il risultato di tanta eterogeneità è una di suoni e ritmi di cui Gabriel è il costruttore. Molti brani sono semplicemente la rielaborazione di temi armeni, egiziani e kurdi con centinaia d’anni di storia. l’impressione è quella di assistere a un gigantesco musical futurista.
Nel film, Scorsese voleva mostrare la lotta tra il lato umano e divino in Cristo in modo duro e provocatorio. Le tracce di Passion raccontano questo conflitto.

Nel 1992 arriva US ,un album intimista e personale, condizionato dal fallimento sentimentale di Gabriel per il divorzio dalla moglie Jill e dalle tormentate relazioni con Rosanna Arquette e Sinéad O’Connor. È rivolto ai rapporti di coppia, a quelli universali, tra tutti gli esseri umani. Il disco, mescola il pop-funk tecnologico di So e quello etnico di Passion, grazie al consolidato rapporto con Lanois in cabina di regia e a un cast stellare, con Tony Levin (basso), David Rhodes (chitarra) e Manu Katche (batteria) a formare l’architrave della band, e tantissimi ospiti ad alternarsi nei brani: Brian Eno, Shankar, Sinéad O’Connor, Peter Hamill, più una pattuglia di musicisti folk da Argentina, Egitto, Senegal, Russia, Kenya e Turchia.
“Come Talk To Me” apre il disco, O’Connor affianca Gabriel la canzone è diretta alla figlia Melanie, che non voleva più parlargli dopo il trauma del divorzio: è una preghiera, un invito a riappacificarsi. Il risultato è un brano di straordinaria potenza e intensità emotiva. Il copione si ripete con gli stessi interpreti nella struggente ballata “Blood Of Eden”, la rievocazione del Giardino dove tutto nacque, una riflessione sull’unione tra uomo e donna.
Anche qui non mancano, comunque, i consueti scatti ritmici, come la funkeggiante “Steam”, diretta discendente di “Sledgehammer” e l’energica “Digging In The Dirt”.
Fondendo gli eccellenti risultati pop raggiunti con So e l’unione etno-folk internazionale frutto di anni di incontri e contaminazioni nel mondo, Gabriel centra con Us un altro importante traguardo, consolidando il suo cantautorato elettro-rock unico al mondo per complessità e potenza. Forse lievemente sottovalutato all’epoca, diverrà col tempo uno dei classici indiscussi del decennio Novanta.

Gli anni successivi

Negli anni successivi Gabriel si concentrata soprattutto sullo sviluppo del progetto Real World, fino al 2000 quando esce Ovo, poderosa opera rock piena di stili e di strumenti: dalle percussioni ai sintetizzatori, dai violini indiani ai ritmi techno, dalle melodie celtiche a sprazzi di musica industriale. I protagonisti rispecchiano l’ambizione dell’essere umano di governare la natura a costo di distruggerla. Racconta l’epopea di una famiglia attraverso un tempo indeterminato, diviso in tre stadi: preistorico, industriale e tecnologico. “Ovo” è l’ultimo rappresentante della famiglia, colui al quale viene dato il compito di raggiungere l’equilibrio tra il sapere tecnologico e quello morale. Una favola con intenti ambientalisti di facile presa, dove è la musica a dare profondità e prospettiva alla storia.
Insieme a Gabriel, voci e musicisti di valore come Richie Havens, indimenticabile performer di Woodstock, Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, Neneh Cherry e Paul Buchanan cantante dei Blue Nile, ma anche Jocelyn Pook autrice di alcune delle musiche della colonna sonora di “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick e il maestro del flauto di Ney, l’egiziano Kudsi Erguner.

Up (2002) delude le aspettative di pubblico e critica. Il singolo “The Barry Williams Show” è troppo simile a “Shock The Monkey”. E le sperimentazioni sparse qua e la all’interno del disco non colgono nel segno. “Sky Blue”, ad esempio, è un buon pezzo ma è telefonato; “My Head Sound Like That” e “More Than This”, hanno buoni arrangiamenti, ma è tutto lì.
Un po’ meglio “Darkness” una bella melodia per piano e voce, “Growing up”, “No Way Out” e “I Grieve”, vanno nella direzione della tradizione di Gabriel e infine l’etnica “Signal To Noise”. Sembra quasi che Gabriel abbia tentato di sopperire con la cura certosina degli arrangiamenti una carenza compositiva già emersa con il precedente Ovo.

Nel 2008 esce a nome Peter Gabriel Big Blue Ball, il frutto di tre anni di jam, session e incontri avvenuti a inizio delgi anni 90 sotto la supervisione del compositore inglese. A passare per gli studi Real World, un campionario degli artisti accasati presso l’etichetta di Gabriel e un discreto numero di nomi di spicco in ambito world music e dintorni.
L’album è un disco artificioso che segue Ovo, molti pezzi si incentrano sul suono, trascurando l’aspetto compositivo.

Nel 2010 arriva Scratch My Back. Un album di cover: dodici brani per altrettanti artisti che si impegneranno, a loro volta, a realizzare una versione di un pezzo di Gabriel. Partecipano artisti del calibro di: Paul Simon, David Bowie, Talking Heads, Elbow.
Con New Blood (2011) Gabriel rielabora 14 sue canzoni con l’ausilio di un’intera orchestra. Via chitarre e batteria, rielabora in chiave orchestrale pezzi storici con risultati non sempre all’altezza. È un disco intero di saliscendi di archi e fiati non sempre gradevole ma ci sono come sempre con Gabriel spunti apprezzabili.

I/O

Dopo ventun’anni di attesa, il 1° dicembre 2023, Peter Gabriel regala ai propri fan l’atteso ritorno con un album di inediti: I/O è il titolo del nuovo progetto, partito, iniziato addirittura negli anni 90.

Per la sua riapparizione artistica, ha utilizzato un approccio graduale, dilatato nel tempo, preferendo pubblicare i brani con cadenza mensile. Dopo aver comunicato nel novembre 2022 che tutto pronto per la distribuzione di una nuova raccolta di inediti, dal 6 gennaio 2023, con la pubblicazione del primo singolo intitolato “Panopticom”,il ritorno di Peter Gabriel è realtà. È però necessario fare un po’ di chiarezza metodo utilizzato dall’artista per realizzare questo ampio progetto.
Ogni brano è presentato con tre diversi missaggi, ognuno elaborato da differenti produttori e ingegneri: il “Bright-Side Mix” curato da Mark ‘Spike’ Stent, il “Dark-Side Mix” prodotto da Tchad Blake, ed il mix ”In-Side” elaborato da Hans-Martin Buff, per la diffusione in Blu-ray.

La divulgazione dei vari brani ha una cadenza mensile ben precisa ad ogni sorgere della Luna piena, così uno per volta o meglio uno “per luna” arrivano tutti i dodici brani. In aggiunta, ad accompagnare ogni brano c’è un’opera d’arte visiva scelta dallo stesso Gabriel, come già accaduto per “Us” e “Up”, creata da pittori, scultori e artisti contemporanei.
Le tre versioni con le quali sono stati missati i brani non hanno grandi differenze tra loro, eccetto nella versione “In-Side”, nel quale Hans-Martin Buff ha aggiunto alcune sezioni strumentali, ove opportuno, ovviamente con la piena autorizzazione di Gabriel. Non mancano richiami al pop, per così dire, più commerciale, un settore dove lui è sempre riuscito a primeggiare serbando un altissimo grado di eleganza.

I/O ha segnato il tanto atteso ritorno al pubblico di un esponente tra i più influenti degli ultimi cinquant’anni ed anche se il disco non aggiunge nulla di nuovo al suo repertorio, consolida semmai ce ne fosse bisogno, la posizione di autentico gibante della musica.
È un album fresco, conflittuale, magnetico, denso di contenuti e di soluzioni stilistiche, che non risente dei lunghissimi anni di gestazione.
C’è sempre bisogno di dischi come questo, soprattutto oggi, in un periodo storico dove la corsa al risultato, sembra essere l’unico obiettivo, non solo in ambito musicale. Che se ne parli bene o male non è importante. Ciò che conta è che Peter Gabriel sia tornato e abbia dimostrato, per l’ennesima volta, di avere ancora, tantissime cose da dire.

Gennaro De Santis

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