La crisi delle relazioni internazionali e la fine dell'unipolarismo
Fonte immagine: Wikimedia Commons

Con l’attacco di Hamas del 7 ottobre, la politica internazionale è entrata in una nuova fase di tensioni, politiche e militari, le quali confermano, ancora una volta, come il periodo di crisi, inaugurato con l’invasione russa dell’Ucraina, abbia strascichi che travalicano i confini europei. L’ordine mondiale non è mai stato così liquido, frammentato e le guerre in corso ne sono tanti portatori quanto acceleratori. La rinnovata competizione di potenza tra gli Stati Uniti e il suo rivale diretto, la Cina, la costruzione di nuovi blocchi regionali e una globalizzazione sempre più contestata a causa dell’appetibilità di un modello alternativo – quello cinese. Si tratta di numerosi fattori che mettono in discussione l’attuale architettura delle relazioni internazionali e il sistema unipolare a guida americana. Il tutto si potrebbe riassumere con una semplice espressione: la “politica internazionale sta diventando sempre più liquida”.

Il futuro appare incerto. I parametri che fino a questo momento stabilivano la forza e la tenuta delle economie – scambi commerciali, investimenti diretti, flussi di capitali, catene del valore – non garantiscono più la stessa granitica certezza di un tempo. L’attore principale e più influente dell’ordine internazionale, gli USA, sembrerebbe essere sempre più orientato ad adottare politiche finalizzate a disancorare la propria economia da quella cinese.

La verità è che questa fase di crisi delle relazioni internazionali, la quale potrebbe segnare la fine della concezione unipolare, da parte americana, della politica internazionale, altro non è che l’ennesima fase di transizione della storia globale. Si tratta, però, di una transizione pericolosa, fortemente bellicosa e in cui gli equilibri rischiano di saltare. La garanzia americana – la cosiddetta “pax americana” – non è più sufficiente a garantire una transizione pacifica verso una nuova fase dell’ordine globale, mentre nuove prospettive vanno aprendosi per la Cina e i regimi autoritari.

La crisi dell’unipolarismo nelle relazioni internazionali

Le trasformazioni in atto nel sistema internazionale ci fanno supporre che in futuro si dovrà parlare di occidente al plurale. L’Occidente non è un’entità geografica ma politica e culturale, anche abbastanza recente“, ha affermato Angelo Panebianco in un suo intervento del marzo scorso. Questa frase, fa da apripista alla concezione che in un futuro non troppo lontano, l’assetto geopolitico mondiale possa seriamente cambiare. Gli esperti indicano tre tendenze da tenere in considerazione: la prima, la più ovvia, è la fine dell’unipolarismo e l’affermazione di un mondo multipolare dove le alleanze cambiano all’ordine del giorno e delle convenienze; la seconda, l’affermazione di Paesi, ad oggi meno attrezzati rispetto alle economie occidentali, come l’India o l’Indonesia e, la terza, la graduale diminuzione e crisi delle democrazie tradizionali.

In primis occorrerebbe quantificare e qualificare il primato americano nel mondo, utilizzando il metro della “polarità, cioè l’analisi di vari fattori o determinanti di potenza che aiutano a comprendere quanto essa sia diffusa e concentrata. Se provassimo ad applicarle al contesto corrente, noteremmo come esista un persistente scarto tra gli Stati Uniti e gli altri. La spesa per la difesa sfiora ancora il 40% di quella globale. In rapporto con la seconda potenza, la Cina, quella americana la supera di tre volte. Alla netta superiorità militare, si aggiunge una pervasività tecnologica ancora importante e soprattutto una capacità straordinaria di proiettare la propria potenza all’estero: gli USA possiedono tra le 700 e le 800 basi, secondo delle stime recenti, nonostante i numeri del Pentagono dicano altro.

Da quello militare al primato economico: la prevalenza del dollaro come valuta globale di riserva e mezzo principale delle transazioni commerciali e finanziarie è incontrastata, nonostante i tentativi della Cina di forzarne il superamento. I dollari costituiscono ancora tra il 60% e il 70% delle riserve globali in valuta. I titoli del tesoro statunitensi continuano a rappresentare la principale fonte d’investimento a medio e lungo termine. A tutto ciò vanno aggiunti altri fattori: la capacità degli americani di dettare regole e pratiche del sistema globale, come ha dimostrato la guerra in Ucraina attraverso i vari round di sanzioni.

Allora perché si parla spesso di crisi del sistema unipolare? Per una serie di ragioni riconducibili sostanzialmente alle disfunzionalità del sistema politico statunitense, che hanno peggiorato l’immagine degli USA nel mondo, alle differenze tra “polarità” e “polarismo”, cioè tra i primati quantitativi e la capacità di attrarre a sé gli altri attori globali e alla nascita di un modello alternativo fortemente competitivo, cioè quello cinese.

A questi tre indicatori principali, se ne potrebbero affiancare altri come gli errori commessi in politica estera dopo la caduta del Muro di Berlino, le difficoltà di esercitare la sua leadership nel mondo (il “fare” egemonia) e la continua sottovalutazione di scenari globali che, successivamente e nel prossimo futuro, si sono rivelati e si riveleranno importanti per le sorti stesse del modello occidentale. Chiude il quadro un fattore che è stato assunto a punta di diamante della narrazione cinese: il “sistema duale” americano, cioè l’uso discrezionale del diritto internazionale e di guerra da parte degli americani. Tutte queste difficoltà si sono tradotte in una debolezza di fondo del polo americano, diventato nel corso degli anni più “sfidabile“.

Seppur, come sottolineato, gli standard quantitativi siano ancora dalla parte di Washington, urgerebbe, per esigenze di analisi, sottolineare come anche le differenze quantitative si siano affievolite nel corso del tempo. Fermo restando che la superiorità assoluta degli americani resta indiscussa, è opportuno segnalare che, alla prova dei fatti, risulti meno netta di quanto sia possibile immaginare: in termini di PIL aggregato, la spesa militare americana, nel giro di quasi vent’anni (2006-2021) è passata dal 46% al 38%. Nello stesso periodo, quella cinese è cresciuta dal 4% al 14%. Il PIL cinese, poi, in rapporto a quello mondiale, è quasi raddoppiato: dal 10,2% al 18,5%, secondo l’FMI.

Quello in crisi è sostanzialmente l’unipolarismo culturale e valoriale del sistema americano, la sua possibilità di assurgere a modello per le economie in vie di sviluppo, sempre più proiettate verso la “proposta cinese”, più confacente ai bisogni economici (e politici) di questi Paesi. L’ordine internazionale, di conseguenza, è diventato di riflesso molto meno unipolare e potenzialmente bipolare. La crisi di egemonia degli Stati Uniti ha aperto voragini, dei vuoti di potere che sono stati presto colmati da altre potenze regionali o direttamente dalla Cina.

Il bipolarismo nascente è ancora asimmetrico, con una potenza superiore all’altra, ma il teatro in cui la competizione si svolge è diverso. Le economie sono tra loro fortemente interconnesse, l’Occidente è politicamente instabile, con le democrazie che in alcuni casi si auto-sabotano inconsciamente, mentre i conflitti regionali distraggono Washington dai suoi obiettivi nel Pacifico. Dall’altro lato, gli Stati Uniti hanno montato un’ampia rete di alleanze anti-cinesi nel continente asiatico, di cui l’ultima arrivata è l’AUKUS. Anche le relazioni internazionali si stanno fortemente polarizzando, rispolverando la vecchia “abitudine” dei blocchi, politicamente contrapposti tra loro nonostante la rete di relazioni economiche e commerciali a cui è impossibile rinunciare. Un esempio è l’Europa, legata politicamente agli USA ma fortemente attratta dalle possibilità cinesi. Un esempio coerente, anche se più complesso, è quello dell’amicizia senza limiti tra Cina e Russia, una relazione asimmetrica ma politicamente necessaria per la sopravvivenza del “blocco”.

Politica internazionale liquida

La politica internazionale non è mai stata semplice: ricostruire con fedeltà simmetrica e precisione matematica la bontà e la coerenza delle relazioni internazionali è davvero difficile. Sulla carta, valori e principi dovrebbero legare indissolubilmente uno stato ad un blocco o ad un altro stato. In realtà, l’unica vera forza in grado di smuovere la volontà degli stati è il perseguimento del proprio interesse. Gli altri fattori, in un ipotetico calcolo costi-benefici, vengono dopo. Appare chiaro che ridurre il tutto ad una frase, per quanto veritiera sia, è riduttivo ma nella crisi dell’unipolarismo americano è da mettere in conto anche questo fattore, cioè quanto l’adesione ad una causa o all’altra sia “conveniente”, quanto possa stuzzicare l’interesse di uno stato.

Se ai tempi della guerra fredda prevaleva, tra le altre cose, l’impronta ideologica (comunismo vs capitalismo) ad oggi, invece, quella contrapposizione è soltanto politica, ovverosia confacente ai bisogni di una narrazione giustificativa in grado di porre una base coerente all’azione politica. La realtà racconta un’altra storia: con governi sempre più populisti e alla ricerca del “colpo grosso” per la propria nazione, le alleanze non sono più stabili, in quanto la volubilità di tali esperienze di governo, disordinate e caotiche, si ripercuote sull’ordine esterno. Meno ordine, significa alleanze meno stabili e interessi cangianti. È il trionfo della politica internazionale liquida. Un esempio, molto vicino, potrebbe essere quello dell’Italia che, fino ad oggi, è l’unico Paese del G7 ad aver aderito al grande progetto geopolitico cinese delle Nuove Vie della Seta.

In uno scenario così caotico, a pagarne le conseguenze è anche la diplomazia, spina dorsale delle relazioni internazionali. Il dialogo tra le nazioni è da tempo passato in secondo piano, in quanto in un confronto in cui le posizioni sono così confuse, anche le parole perdono di credibilità. Ed è forse quest’ultimo, uno dei più gravi problemi riconducibile alle relazioni internazionali odierne: la scarsa credibilità degli interlocutori.

Donatello D’Andrea

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