Ebbene sì, in quell’inferno dei dimenticati c’è davvero qualcuno capace di autodeterminarsi attraverso le possibilità offerte nei luoghi di detenzione come il carcere.
Basta cercare su internet e leggere tante storie di persone che, nonostante le condizioni precarie dei luoghi di detenzione, hanno avuto la possibilità e la forza psicologica di accrescere la propria cultura.
Molti detenuti hanno compreso che la cultura non è un quadro da esporre: è un investimento.
È un investimento sul futuro, una possibilità reale di valorizzare se stessi inserendosi attraverso l’acquisizione di capacità, nel tessuto sociale, prima e dopo aver scontato la propria pena.
Intraprendere un percorso di studio all’interno delle carceri è davvero molto difficile: inutile negare che tali istituti violano tanti diritti umani, figuriamoci un diritto così complesso come quello allo studio. Basti pensare che secondo gli ultimi dati Istat dell’anno 2011, la media dei detenuti è di 146 persone ogni 100 persone e la regione con il record maggiore di sovraffollamento è la Puglia con 182.2. Tra l’altro, ai difensori dei diritti non saranno certo sfuggite le molteplici condanne da parte della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia per inumanità.
In verità, nell’Ordinamento penitenziario non vi è un reale diritto allo studio, un dato sicuramente in antinomia con l’articolo 34 primo comma della Costituzione Italiana:“La scuola è aperta a tutti”. Perché si, mentre l’articolo 34 sancisce un diritto, nell’Ordinamento penitenziario è attribuito un ruolo di rilevanza all’Istruzione, ma solo come possibilità e non si esplicita una eventuale tutela di tale percorso.
Eppure qualcuno ricorderà bene che l’articolo 27 della Costituzione Italiana recita: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato(…)”. Questo significa che ogni detenuto, secondo garanzia della madre Costituzione, ha il diritto di ricevere garanzia e tutela al fine di perseguire i propri obiettivi in termini di istruzione e/o percorso educativo.
Naturalmente bisogna fare chiarezza su cosa intendiamo per diritto allo studio. Un diritto è un diritto, pertanto dev’essere legittimato in pieno e non in parte, come spesso succede con quello allo studio all’interno delle carceri. Difatti, gli stessi luoghi devono permettere la reale possibilità agli studenti detenuti di poter studiare prima e dopo le lezioni; chiedersi se i programmi interni stabiliti siano coerenti e adatti alla situazione del detenuto; istituire più Poli universitari: sono l’unica garanzia per chi vuole diplomarsi o addirittura laurearsi, perché offrono spazi e materiale didattico idoneo ad un qualsiasi individuo.
Non a caso Voltaire affermò: «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione».
Un percorso educativo serio e professionale di una nazione civile è necessario affinché chiunque abbia sbagliato, nei reati gravi o meno gravi, possa metabolizzare e prendere consapevolezza di quanto fatto, anche e soprattutto attraverso la conoscenza di sé e del mondo con un possibile reinserimento nella società.
Normalmente, in condizione di detenzione si trascorrono circa 22 ore in cella, a Poggioreale, ad esempio, il detenuto ha la possibilità di uscire negli spazi interni della struttura per circa due ore al giorno, palese anche, il problema del sovraffollamento che impedisce ogni tipo di percorso di rieducazione o reinserimento.
Tali condizioni riconsegnano alla società persone completamente distrutte psicologicamente, e in tal modo, spesso, il crimine è riprodotto. Lo Stato deve farsi garante e non continuare a sottovalutare l’aspetto più umano di questi luoghi rispetto a quello burocratico-amministrativo: queste persone hanno il bisogno primario di conoscere e gestire la propria identità.
Qui riportata vi è un’intervista telefonica a Salvatore Striano che ringraziamo per il tempo e la disponibilità. Circa 11 anni di detenzione, poi ha deciso di darsi un’opportunità nella vita: dedicandosi alla recitazione e alla scrittura, esordendo, tra l’altro, in un film di Garrone tratto dal bestseller di Saviano, “Gomorra”.
Salvatore, hai trascorso circa 11 anni della tua vita in carcere, ad oggi, dopo tale esperienza, quanto è cambiata la tua identità rispetto a quando, invece, ci sei entrato?
«Beh, è totalmente cambiata in tutto: negli atteggiamenti, nel linguaggio, nei comportamenti, nelle azioni e nelle reazioni, nel pensiero stesso. Quando vieni da certe esperienze o cambi in tutto o non cambi, non si può cambiare in parte, è tutta la condotta che risulta sbagliata ed è la condotta che dev’essere totalmente rivista».
Credi che il carcere dia reali possibilità di cambiamento e opportunità?
«Io ho avuto la fortuna di trovarmi in un carcere in cui vi era una reale attenzione nei confronti della popolazione detenuta. Il teatro più di ogni altra cosa mi ha aiutato a cambiare, soprattutto quando abbiamo iniziato ad uscire dalle celle per le prove e andando in scena per un numero ampio di persone: erano lì ad applaudirci e, solitamente, quando le persone ci vedevano o ci incontravano tendevano a nascondersi. Il teatro per noi tutti è stata una fortuna, anche per me, per cui la rispetto e non la calpesto. Accolgo questa fortuna e continuo a fare ciò che mi piace: scrivere e recitare. Ma non è così in tutte le carceri, dentro e fuori c’è una totale indifferenza, bisognerebbe per davvero dichiarare bancarotta, chiudere! Io ho avuto gli anticorpi per combattere ma così com’è fatto il carcere oggi, è più dannoso che altro».
Tornando alla tua esperienza, quale attività interna al carcere, secondo te, andrebbe potenziata?
«Innanzitutto debellare ogni forma di violenza, evitando che i propri crimini vengano raccontati a tutti, diventando così tutti esperti di materia penale; bisognerebbe, invece, creare una grandissima catena umana che possa assistere la popolazione detenuta attraverso dei laboratori teatrali, attraverso la cultura e la conoscenza. Ne parlai con lo stesso Sindaco di Napoli a cui voglio bene: oltre a dover disinnescare i rapporti tra i detenuti e i propri familiari rispetto alle organizzazioni criminali, bisogna pensare a delle biblioteche, a luoghi in cui raccontare le proprie memorie, così avremmo sicuramente meno buffoni e persone più consapevoli. Non si può essere protagonisti del male ma bisogna che queste persone si innamorino del sapere! Purtroppo ci sono ancora tante vittime di questo sistema, come le mogli dei boss che si perdono, a causa delle condizioni psicologiche che si trovano a vivere. Bisogna essere un supporto per loro, bisogna depotenziare il potere della criminalità, rischiando anche l’isolamento per tagliare questo filo.»
Per concludere, un consiglio ai tanti detenuti che hanno perso anche il più semplice ma fondamentale stimolo: alzarsi al mattino e progettare.
«Non posso dare dei suggerimenti, ho solo dei pensieri che vanno a loro. Guardando nella cella in cui ci sono stato per tanti anni e conoscendo gli strumenti che ci sono, in qualche carcere possono avere anche un computer, sarebbe una possibilità per diventare padroni di quella macchina e del pacchetto Office che ti permetterebbe di accedere ad un lavoro. Quel foglio e quella penna bisogna utilizzarli per raccontarsi, avendo il coraggio di mostrare chi siamo. Siamo persone, siamo persone recuperabili nonostante le botte, le porte chiuse in faccia ed i rumori strani delle carceri. Sarebbe bello andare nelle celle a Natale e mangiare con loro, iniziando così, con dei semplici gesti! Bisognerebbe pensare ad un tipo di associazionismo che non guardasse al proprio giardino ma ad una grande oasi.»
Bruna Di Dio