Esiste da trent’anni e ha coinvolto più di quattro milioni e mezzo di studenti, più di quattromila università e ben 31 paesi: si chiama Erasmus.

Secondo i dati riportati dalla Commissione Europea, a cinque anni dal conseguimento del titolo di studi il tasso di disoccupazione degli studenti che hanno avuto accesso al programma Erasmus è del 23% più basso, ed uno studente Erasmus su tre, in seguito all’esperienza maturata all’estero, decide di cercare lavoro nello Stato ospitante o di proseguire la carriera di studi magistrali e/o master.

Il progetto Erasmus rappresenterebbe, quindi, il segno maggiormente tangibile della concretezza dell’unione tra popoli europei, oltre che della volontà di apertura, conoscenza e dialogo tra tradizioni storico-culturali e dinamiche sociali completamente differenti tra loro. Questi motivi, uniti a quelli formativi, hanno spinto molti politici ad esprimersi positivamente rispetto al progetto Erasmus: tra questi la Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini che con un tweet auspica la futura obbligatorietà dell’Erasmus, per il senso di comunità europea che veicola, o il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, che promette l’estensione del programma di mobilità studentesca agli ultimi due anni delle scuole superiori.

«In vista della manovra di autunno «sto lavorando per estendere l’Erasmus agli ultimi due anni delle superiori, in modo tale da far diventare curriculare questa formidabile esperienza formativa»

[Valeria Fedeli, intervista a Il Sole 24 ore, 20 agosto 2017]

Ciò che la Fedeli propone in realtà esiste già, ed è la mobilità a lungo termine di Erasmus Plus, già nota con il nome di Comenius MIA, progetto del quale ha già usufruito una generazione di studenti. L’unica differenza è che il progetto non è sussidiato dallo Stato, ma dipende da accordi internazionali tra le scuole di provenienza e di destinazione.

Esistono tuttavia anche dei detrattori del progetto Erasmus, tra cui si annoverano pseudo-intellettuali militanti — se qualcuno ha pensato a quel Fusaro spesso presente nei talk show ha indovinato —, politici antieuropeisti, mamme preoccupate per l’immotivata fuga dei propri pargoli e nostalgici pater familia che rimpiangono l’unica vera esperienza formativa per un ventenne (maschio): la leva obbligatoria.

Il programma di mobilità studentesca sarebbe, per questi ultimi, un’esperienza formativa d’élite volta semplicemente a rimpinguare i curriculum lavorativi di una generazione di inetti.

Per i suddetti moralizzatori, durante il periodo di residenza all’estero, quelli che vengono chiamati “studenti Erasmus” si dedicherebbero alla smodata nullafacenza: movida, abuso di alcool e sostanze stupefacenti, mattinate di studio perse, esami facili da superare e crediti universitari “regalati” sono solo alcuni degli argomenti maggiormente utilizzati per ribadire l’inutilità del progetto Erasmus.

Recentemente il filosofo pop Diego Fusaro si è unito al coro dei detrattori del progetto, dipingendo l’Erasmus come una nuova naja volta a rieducare i giovani ad un globalismo post-nazionale, privandoli della loro identità nazionale e condannandoli ad un’esistenza errante ed effeminata. Dietro la retorica escludente, volutamente tecnicistica e ridondante di Fusaro si nasconde il pregiudizio e la cieca chiusura rispetto l’alterità, la diversità, la tolleranza e la collaborazione interculturale che il progetto Erasmus mira invece a promuovere ed incrementare.

«Abbiamo tolto la leva obbligatoria e abbiamo messo come nuova naia l’Erasmus, per rieducare i giovani al globalismo post-nazionale. Di modo che essi abbandonino ogni radicamento nazionale e ogni residua identità culturale e si consegnino senza coscienza infelice all’erranza planetaria, all’espatrio permanente, al moto diasporico globalizzato e alla centrifugazione postmoderna delle identità. I pedagoghi del mondialismo possono così, con profitto, imporre ai giovani femminilizzati la nuova postura cosmopolita no border.»

[Diego Fusaro, “Erasmus, la nuova naja per educare i giovani al mondialismo”, diegofusaro.com, 20 agosto 2017]

L’innegabile avvento della globalizzazione ha sicuramente mutato profondamente la concezione spazio-temporale dell’uomo, esasperandone la precarietà in ambito lavorativo ed esistenziale e sottomettendolo all’autorità di interessi indeterminabili, autopropulsivi ed iniqui tipici del sistema globalizzato neoliberale. Tuttavia se il mondo si dividesse, come teorizzato dal sociologo Baumann, in vagabondi erranti esclusi ed emarginati e in turisti d’élite privilegiati e tutelati, sarebbe difficile trovare all’interno di questo serrato dualismo un posto per la così detta generazione Erasmus.

Se da un lato la selezione per la partecipazione al programma Erasmus avviene su basi prettamente meritocratiche e indipendenti dal reddito, dall’altro il contributo mensile finanziato dall’UE non è sempre sufficiente a coprire tutte le spese legate al risiedere in un paese straniero, motivo per cui molti studenti si autoescluderebbero dal programma, che rischierebbe di divenire, a detta di alcuni, un privilegio di classe.

Forse, a prescindere dalle varie teorizzazioni sull’utilità economico-lavorativa dell’Erasmus e sul suo essere o meno riservata a pochi privilegiati, sarebbe necessario interrogarsi su quale sia l’apporto esperienziale che offre e che tipo di mobilità promuova — checché ne dica Fusaro, la situazione è un po’ più complessa.

La contemporaneità è caratterizzata sempre più dalla precarietà e dalla vulnerabilità, che affliggono ugualmente sia i corpi dei singoli soggetti sia i gruppi sociali, creando un clima collettivo di insicurezza e paura che porta alla ricomparsa di pericolose quanto fantomatiche ideologie nazionaliste, identitarie, protezioniste e spesso escludenti. A tal riguardo l’esperienza Erasmus sembra porsi controcorrente, costruendo uno spazio internazionale di scambio, collaborazione interpopolare e resistenza, non destinato al conformismo identitario e globalizzante ma all’alleanza strategica di soggetti ricettivi e resi capaci, grazie allo scontro con la diversità, di muoversi in modo fluido nella rete di relazioni complesse che costituiscono questo nostro mondo oltre-nazionale.

A trent’anni dalla sua creazione, il progetto Erasmus sembra essere ancora in grado di reggere le sfide del presente  e si dimostra quindi, oltre che una possibilità di pensare ad un’Europa poliglotta e senza confini, una possibilità di crescita individuale e collettiva unica e impareggiabile. Utilizzando il vocabolario di Baumann potremmo sostenere che la generazione Erasmus sia sicuramente una generazione errante e vagabonda, ma in aggiunta competente e preparata alla sopravvivenza nella giungla globalizzata.

Sara Bortolati

1 commento

  1. Questo articolo non è altro che uno smodato e inopportuno elogio di un progetto che è solo motivo di emarginazione, in contrasto quindi con il concetto di integrazione al quale si richiama. Innanzitutto come viene appunto rilevato molti studenti non possono parteciparvi perchè impossibilitati a far fronte alle spese, maggiori di quanto il contributo finanziato possa coprire. Inoltre non riguarderebbe coloro che sono costretti a lavorare in patria per mantenersi gli sudi universitari e chi studente universitario non è. Credo invece sia utile che si spendano soldi pubblici proprio per favorire la formazione e l’accesso al lavoro delle categorie più svantaggiate, non certo per offrire rimborsi spese ai “figli di papà” che vogliono garantirsi una lunga vacanza studio. Oggi come oggi i giovani non hanno certo bisogno di stimoli istituzionali per viaggiare ma conosciamo benissimo, e questo artico elude l’aspetto principale, le motivazioni politiche che ne sono alla base. Lo sfruttamento della manodopera, che in Europa mai ha raggiunto dei picchi così elevati, spinge la propensione ai trasferimenti internazionali, per aumentare la concorrenza sul mercato del lavoro. E’ il frutto di una visione a corto raggio dell’economia che oggi predomina. Preferirei che le istituzioni sollecitassero i giovani ad impegnarsi nei propri luoghi di vita per migliorarne le condizioni ed il contesto, piuttosto che spingerli a vagabondare per i sobborghi di Londra a cercare un posto da lavapiatti. Le persone, cara Sara Bortolati, hanno un’anima e il senso di sradicamento che provoca una migrazione, ha delle conseguenze sicuramente dannose sul morale. Credo che nessuno vada abituato a vivere e lavorare a migliaia di kilometri dalla propria casa e dagli affetti. Trovo infine disgustoso che lei derida in questo articolo i sentimenti di genitori che, come è logico per natura, sentano la mancanza dei propri figli lontano da casa.

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