Nelle università italiane cresce nei giovani un preoccupante disagio e sono sempre più frequenti i casi di suicidio tra gli studenti. Ma cosa c’è dietro? Di chi è la responsabilità?

Un suicidio, l’ennesimo, per motivi legati all’università. Ormai si è tristemente abituati a queste notizie, tanto che non fanno quasi più rumore.

L’ultimo caso, eclatante: un 27enne di Chieti aveva annunciato la data in cui avrebbe discusso la sua tesi di laurea in Giurisprudenza, a Roma. Era tutto pronto: ristorante prenotato e corona d’alloro sulla scrivania, tra l’orgoglio dei suoi genitori. All’alba del giorno tanto atteso, però, il fattaccio: il padre lo ha trovato in una pozza di sangue a causa di un colpo di pistola, quando ormai non c’era più nulla da fare. Solo in seguito si è scoperto che nessuna sessione di laurea era in programma all’università del ragazzo per quel giorno, e allora i contorni del suicidio si sono delineati.

Non è la prima volta che accade un fatto di cronaca simile: poche settimane fa un 22enne di Rovigo aveva trovato la morte sotto un treno in circostanze molto simili, la sera prima della sua laurea in Ingegneria che ricostruzioni successive hanno dimostrato non essere così vicina.

In situazioni del genere è molto facile cedere alla tentazione di etichettare il singolo caso come “disturbo mentale”, magari il gesto estremo di un depresso o derivante da situazioni di vita e familiari particolari. Ma forse, ormai, essendo in presenza di più episodi molto simili tra loro, sarebbe il caso di iniziare a guardare al fenomeno nel suo insieme, per cercare di capire le cause sociali più profonde ed intervenire in tempo per evitare altri casi.

È infatti evidente come siano sempre più forti le pressioni che gravano sulle spalle della cosiddetta ‘Millennial Generation’, pressioni che derivano anche dalle prospettive lavorative non certo rosee. Se è vero, infatti, che il rapporto AlmaLaurea del 2016 sulla condizione occupazionale dei laureati lascia intravedere un accenno di ripresa nella lotta alla disoccupazione giovanile e nella stabilizzazione dei contratti, lo è altrettanto il fatto che la percentuale di laureati con un’occupazione è drasticamente diminuita rispetto agli anni precedenti alla crisi economica. Inoltre, i segnali di risveglio sembrano effettivamente molto timidi.

Ma il disagio per lo studente di oggi non nasce solo nel momento in cui si affaccia al mondo del lavoro; anzi, gran parte della responsabilità è probabilmente da attribuire ad un sistema universitario che sembra essere obsoleto e lontano anni luce da quelli del resto d’Europa. Strutture fatiscenti, tasse spesso troppo alte per permettere a tutti gli studenti di frequentare l’università, e programmi spesso troppo lontani da ciò che richiede il mercato del lavoro. Siamo persino l’unico paese in Europa in cui, a causa di un decreto risalente all’epoca fascista (!), per gli studenti non è possibile frequentare più di un corso di laurea contemporaneamente, mentre in altri paesi (Spagna, Germania, Polonia e Austria solo per citarne alcuni) tale pratica è addirittura incentivata.

Non può essere quindi un caso se l’Italia, secondo un recente rapporto Eurostat, risulta essere la penultima nazione dell’UE per numero di laureati tra i 30 e i 34 anni, con una percentuale del 26,2%. Lontanissimi dall’obiettivo fissato dall’Unione Europea per il 2020, ovvero che tutti i paesi dell’Unione raggiungano il 40% di laureati. È assolutamente necessario, dunque, ripensare al sistema università nel suo insieme, e bisogna farlo in fretta.

Ci sono, però, anche motivazioni che vanno oltre le semplici statistiche, tanto da spingere dei giovani a togliersi la vita. Perché quei ragazzi hanno sentito il bisogno di mentire ai propri genitori sul loro percorso universitario? Perché Michele, il grafico 30enne morto anch’egli suicida e della cui lettera d’addio in tanti si sono riempiti la bocca per sfruttarlo politicamente e poi lasciarlo nel dimenticatoio, aveva sentito il bisogno di attaccare così duramente «una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti»? Forse alla base c’è un problema di fondo.

C’è un’influenza sociale che viene trasmessa a tutti i livelli, partendo dalla famiglia per arrivare ai media. Quella dell’ossessione della vittoria, del diventare qualcuno, del “riuscire” nella vita. Si propagandano casi di persone partite dal nulla e poi diventate famosissime e super ricche in brevissimo tempo, e si dice: «Anche tu puoi farcela, anzi devi farcela». Allora l’invididuo si isola, cerca di conquistare il successo a qualsiasi costo in una sorta di “guerra di tutti contro tutti” di hobbesiana memoria; e se non ci riesce si incolpa, si sente inutile e per di più solo.

Bisognerebbe, forse, lasciare ad ognuno il tempo per sviluppare le proprie capacità, riscoprire il valore della collettività e del mutuo supporto e propagandare anche altri modelli di felicità.

Perché può sembrare una banalità, ma un’esistenza felice non è legata solo ad un conto in banca pieno o ad un’apparizione in tv, ma anche solo a quelle piccole cose come una casa, una famiglia ed un lavoro, che tanti giovani di oggi chiedono a gran voce. Bisognerebbe solo aprire le orecchie ed ascoltarli.

Simone Martuscelli

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