«Morire di lavoro nei campi e lavorare a due euro l’ora è inaccettabile […] Oggi, quell’odioso assetto di sfruttamento del lavoro, che è stato superato con lotte drammatiche, può riproporsi in forme antiche o attraverso nuove dinamiche» affermano Maurizio Martina e Andrea Orlando, rispettivamente Ministro delle Politiche Agricole e Ministro della Giustizia, in una lettera indirizzata al quotidiano “La Repubblica” e interamente volta al delicato problema del caporalato, che negli ultimi giorni ha scosso l’opinione pubblica e la coscienza dei politici. Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro, ha sposato la causa di Martina e Orlando, sottolineando l’importanza di mettere in moto strategie utili a tutelare sia i lavoratori, che il sistema imprenditoriale.

Attualmente, è l’articolo 603bis del Codice Penale a disciplinare il reato di caporalato, denominato nel testo normativo “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” e facente parte del Libro II – “Dei delitti in particolare” –, Titolo XII – “Dei delitti contro la persona”. L’articolo sopracitato, e dunque il reato in esso disciplinato, è stato introdotto nel 2011 e rappresenta il riconoscimento del problema legato al caporalato e il tentativo, ancora sterile, di fronteggiare tale situazione.
Il primo provvedimento messo in atto è di questo martedì primo settembre ed è stato la “Rete del Lavoro Agricolo di Qualità”, istituita presso l’INPS con il D.L. 24 giugno 2014, n. 91, che consente alle imprese agricole su cui non pendono provvedimenti e/o condanne penali e in regola con il versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi di entrare a far parte di una Rete in grado di certificare presso la clientela la buona condotta.

Oggetto del dibattito politico è la pratica del caporalato unita al ruolo assunto dell’impresa agricola coinvolta e alle condizioni di disagio dei lavoratori. Si continua a porre l’accento sull’impossibilità che nel 2015 un individuo muoia di lavoro, che muoia per guadagnare due euro l’ora – lo hanno chiamato “sfruttamento”, un sopruso che traghetta l’Italia nel passato.

Eppure, è lecito accantonare per un solo istante l’immagine del caporalato, l’impresa disonesta, il disagio dei lavoratori e chiedersi perché: perché accettare di prestare la propria forza lavoro in cambio di due euro l’ora.

I Ministri Martina e Orlando rievocano l’antico sfruttamento della manodopera, vanno dunque rievocate anche le condizioni di povertà in cui versava la classe lavoratrice del passato chiamato in causa, così da creare un parallelo con i tempi odierni e prendere atto che “benessere” e “tenore di vita decoroso” non sono realtà diffuse in tutta l’Italia del XXI secolo; ed è lo stesso 603bis a informarci di questo, nel momento in cui, per descrivere il reato di caporalato, cita “approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”.

Stato di bisogno e necessità assumono qui i contorni di parole-chiave per comprendere quali situazioni hanno favorito la crescita del caporalato.
La cronaca informa che ad accettare una paga di due euro l’ora sono indistintamente immigrati e italiani, persone che hanno tasse, affitti, rate, mutui, servizi sanitari da pagare, alimenti e indumenti da acquistare, forse figli cui far frequentare la scuola dell’obbligo – persone, in sintesi, che hanno necessità di lavorare, una necessità così pressante da indurli a sorvolare su condizioni di lavoro e paghe regolari, poiché una paga, qualsiasi essa sia, è preferibile al niente offerto dalla disoccupazione; quest’ultima difatti, malgrado i toni ottimistici delle ultime statistiche sull’aumento del numero di occupati, continua a tartassare la società, confermandosi quale presenza costante, una problematica irrisolta.

Rosa Ciglio

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