Donne e animali: un'alleanza storica contro la vivisezione
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La scintilla che conduce all’attivismo e ad articolate elaborazioni teoriche è talora imprevedibile, inaspettata, casuale o anche istintiva, laddove per istinto intendo l’esperienza tradotta in azione. Una teoria generale del dominio e dello sfruttamento, credibile, di rado nasce a tavolino, più spesso dal sangue che scorre, il proprio o di chi ti siede accanto. Di chi ti rincorre, che tu lo voglia o meno, con un corpo e una storia che con forza e ostinazione continuamente riemerge dall’invisibilità. Di rado è solo il frutto di una astrazione di “menti illuminate”, un pensiero che si iscrive quasi magicamente sulla mente di un tranquillo individuo pensante. Le emozioni, la sofferenza vissuta, il dolore, uno sguardo agonizzante creano fratture da cui non vi è ritorno e che porranno come prioritario – alla pari di altri – un percorso di liberazione. Se è vero che il sentimento, nella sua fase più matura, necessita di organizzazione e di una definita cornice storica e politica per essere efficace e rivoluzionario nel senso materiale del termine, è anche vero che senza un profondo sentire e un intenso coinvolgimento sarà molto più facile svendere la causa, minimizzarla, perdersi in conflitti di interessi, o addirittura tradirla per i “beni più importanti” finemente declinati, o per un posto d’onore o una rispettabilità sociale, in una infinita ri-costruzione di scale gerarchiche e altari sacrificali. La collera conta. Un sano odio di classe anche. La rabbia non può essere istituzionalizzata e garantisce il mantenimento di un duro conflitto, la spinta propulsiva per l’azione, quella che si vorrebbe incanalata in una mera lotta tra idee contrapposte, tra diverse cattedre e pulpiti più o meno prestigiosi.

Non è a mio parere un caso che si debbano prevalentemente a femministe le prime concrete lotte storiche a difesa della vita e della libertà degli individui di altre specie. Donne che vedevano l’esproprio e lo sfruttamento del proprio corpo e del proprio lavoro in seno alla famiglia (padri, mariti, fratelli e altri parenti uomini, di qualsiasi classe sociale) – prima ancora che nella società circostante – come parallelo a quello degli individui di altre specie e che con una determinazione e un coraggio lunghe una vita intera aggredirono da ogni lato il patriarcato, consapevoli che era scaduto il tempo delle deleghe. E spesso anche quello della “legalità”, infrangendo il tabù della proprietà privata.

L’idea di animale formulata da Cartesio, considerato alla stregua di automa privo di anima, influì fortemente sulla formazione professionale degli scienziati di un tempo, anche se alcuni la contestarono. Prima del 1876 non esistevano restrizioni o controlli sulla vivisezione, di fatto aperta a fisiologi, medici, laboratori pubblici o privati in modo libero. Le prime spinte antivivisezioniste ebbero luogo in Italia nel 1863 a Firenze a opera di donne inglesi, anche se le prime avvisaglie risalgono al 1850. Nel 1875 nasce in Inghilterra la prima società contro la vivisezione, la Victoria Street Society, fondata da Frances Power Cobbe, scrittrice, lesbica e attivista per i diritti delle donne.

L’attivismo antivivisezionista era composto agli inizi da persone che si occupavano dei diritti dei bambini e assistenza ai poveri, donne impegnate nella lotta per la loro emancipazione, umanisti socialisti, vegetariani, cristiani protestanti o anglicani. Le suffragiste influirono parecchio sui metodi duri di protesta contro la vivisezione che assunse carattere internazionale.

Frances Power Cobbe, lesbica e femminista ante litteram, nel 1875 lancia una petizione destinata ad attirare anche l’attenzione di Charles Darwin, di cui lei fino ad allora era estimatrice e con cui vi furono vivaci dialoghi anche a mezzo stampa. Darwin (la cui figlia Henriette fu solo inizialmente contraria alla vivisezione) ebbe cura di sottolineare in diverse sedi di non aver mai praticato la vivisezione e di non essere un fisiologo, decise tuttavia di schierarsi accanto a quelli che considerava dei colleghi e di quello che riteneva essere parte del progresso scientifico, nonostante un conflitto interiore forse mai risolto, testimoniato dai suoi scritti, pervasi da sentimenti di amore per gli animali e acute riflessioni etologiche, e che lo spinse a teorizzare l’anesezione (ovvero la sperimentazione con anestesia) in una sorta di compromesso per coniugare esigenze morali e scientifiche. Forse anche la prima forma storica di edulcorazione volta a placare la dissonanza cognitiva.

La petizione di Cobbe, che proponeva una forte restrizione della vivisezione, mette in forte allarme il mondo scientifico, che cerca di batterla sul tempo per formulare una proposta legislativa, di carattere regolamentarista e non restrittivo, che possa soppiantare quella di Cobbe. Darwin accetta di collaborarvi. Darwin non di rado fu preso letteralmente per la giacchetta, invitato vivacemente a collaborare, in quanto avere Darwin dalla propria parte equivaleva a conferire autorevolezza alle tesi vivisezioniste. La proposta di Cobbe riesce a giungere in Parlamento e la controproposta a cui aveva collaborato Darwin giunge 8 giorni più tardi. Nel 1876 viene approvato il Cruelty to Animals Act, la prima legge in Europa che regolamentava la vivisezione ma che scontentò tutti: i vivisettori la considerarono una grossa limitazione per il proprio lavoro di ricerca e per gli antivivisezionisti era troppo blanda. A questo punto la Victoria Street Society divenne totalmente abolizionista. Di fatto, dopo questa legge gli esperimenti sugli animali aumentarono, da 481 nel 1878 a 37.935 nel 1905. Nel 1881 scoppierà un nuovo caso eclatante in seguito agli esperimenti, nel corso di un congresso, del dottor David Ferrier su delle scimmie, proprio quelle che avevano determinato il legame evolutivo tra i primati e l’uomo teorizzato da Darwin. Ferrier, di cui Darwin prese le parti, fu denunciato dalla Victoria Street Society per violazione del Cruelty to Animal Act, ma la causa fu persa. Al 1881 risale una lettera, intrisa di superlativa ironia, di Cobbe al direttore dello Scotsman sulla “vivisezione dolce” in cui si parla dell’eminente fisiologo italiano Paolo Mantegazza, il quale ricercava sugli effetti del dolore sugli animali creando a questo fine delle macchine di vera e propria tortura, affermando comunque di operare con molto amore e pazienza.

Il caso del cane marrone segue a ruota e prende le sue mosse da due donne svedesi, Louise-Lind-af-Hageby e Leisa Schartau. Esse svilupparono un comune interesse per la scienza e nel 1900 decidono di recarsi a Parigi per visitare principalmente il famoso Istituto Pasteur, un rinomato centro di ricerca scientifica.

Vi si vollero recare per ammirare i risultati della moderna scienza. Quello che trovarono però le sconvolse. Accompagnate da un responsabile dell’istituto videro gabbie su gabbie, stanze riempite con centinaia di animali ai quali si procuravano malattie. Vi erano conigli, maiali della Guinea, cani. Fu lì che si convinsero che la vivisezione, che al tempo non indicava solo, come comunemente si pensa, la dissezione a scopo descrittivo, ma ogni genere di esperimento biomedico per la comprensione e lo studio delle malattie, fosse immorale. Tornate in Svezia fondarono presto una società contro la vivisezione. Erano determinate a combatterla anche da un punto di vista scientifico e quindi cominciarono degli studi in fisiologia e decisero di trasferirsi a Londra, alla London School of Medicine for Women, dove non vi erano sperimentazioni su animali ma era permesso alle studentesse di visitare dimostrazioni mediche con animali in altre accademie della capitale. Cosa che fecero. Dopo parecchi mesi decisero di aver visto abbastanza e interruppero gli studi, nonostante inizialmente avessero progettato di portarli a termine, dato che la fisiologia era indissolubilmente connessa con la vivisezione. Avevano preso parecchi appunti e ne fecero un saggio: “The shamble of science, Extracts from the diary of two students of physiology”. In particolare vi descrissero un esperimento condotto di fronte a 70 studenti (2 febbraio 1903) con cui un cane marrone, con delle ferite derivanti da precedenti esperimenti, veniva sottoposto a dei tagli al collo. Il cane non pareva ben anestetizzato e lottava per liberarsi durante l’esperimento, alla fine del quale venne ucciso da uno studente collaboratore (Henry Dale, più tardi premio Nobel) con una coltellata al cuore (secondo dichiarazione di detto studente, e non con altre misure, come da altre testimonianze sotto giuramento). Esse affidarono il loro scritto a Stephen Coleridge, un avvocato impegnato nella causa antivivisezionista. Coleridge vi intravide due possibili infrazioni sulla base della legge del 1876 per prevenire la crudeltà sugli animali. Il cane pareva essere stato usato per più di un esperimento, la qual cosa era illegale, e non pareva sufficientemente anestetizzato. Coleridge decise di parlarne in occasione di un pubblico discorso indetto dalla società antivivisezionista NAVS di cui faceva parte, ben consapevole del fatto che avrebbe potuto essere accusato di diffamazione. In questa sede propose una risoluzione per l’abolizione della vivisezione. Fece anche menzione del dottor William Bayliss. Il Daily News ne parlò. Bayliss pretese subito scuse e ritrattazione attraverso i suoi avvocati, cosa che non avvenne, da cui il successivo processo per diffamazione, che fece enorme scalpore, tanto che la gente stava in fila fuori del tribunale e accalcata in esso. A testimoniare tra i diversi furono chiamate anche le due studentesse e il medico che eseguì i primi esperimenti (prof. Ernest Starling, che si giustificò dicendo che si trattava di una ricerca per comprendere le cause della pancreatite e del diabete e che così avrebbe salvato vite) e diversi altri. Bayliss, professore di fisiologia, che disse alla corte di non avere qualificazioni mediche ma di avere una licenza per la vivisezione negò tutte le accuse, dicendo che il cane non aveva lottato, che si era trattato di piccole contrazioni determinate dalla corea canina (una patologia neurologica). Disse di aver praticato anestesia anche se l’efficacia di questa fu messa in dubbio e fu sottolineato che un anestesista fosse necessario. L’avvocato di Bayliss era molto abile retoricamente e fu accusato di far leva sulle corde del pregiudizio di razza e sesso, avendo chiesto come le due donne si permettessero di criticare gli scienziati britannici, e che erano le persone più ignoranti mai entrate in un’aula, e parlando di libro isterico, riferendosi agli appunti delle due studentesse. Alla fine Bayliss vince la causa e Coleridge viene condannato a pagare un risarcimento. A Coleridge fu anche rimproverato da parte animalista di non essersi attenuto alla consuetudine di avvalersi per l’accusa solo di dati prodotti dagli stessi sperimentatori. Il Daily News organizza una colletta per coprire le spese legali. In realtà era stata una vittoria, perché sia i giornali nazionali che esteri ormai tutti parlavano del caso e della vivisezione in generale, bene o male che fosse. Ed era stato questo dagli inizi il fine di Coleridge. Il Times parlò addirittura di medical hooliganism anche se i più forse presero le parti del professore e il British Medical Journal parlò di fanatici che anteponevano gli animali agli umani. Particolarmente importante: alcuni animalisti accusarono Coleridge di aver sbagliato nel portare avanti con la sua associazione la politica dei piccoli passi, con l’approccio abolizionista radicale non si sarebbe giunti a tali situazioni.

Poco dopo il verdetto Lind-Af-Hageby fu contattata da Louisa Woodward, attiva in campo animalista che ebbe l’idea di un monumento in onore del cane marrone. Si trattava di un monumento che fungeva anche da fontana per umani e cani e su cui si trovava una incisione in cui si parlava delle torture inflitte al cane dal University College di Londra attraverso la vivisezione e che si concludeva chiedendo a uomini e donne quanto ancora sarebbe durato tutto ciò. Come sede naturale del monumento si pensò a Battersea, una zona industrializzata, in cui si concentravano politiche alternative, sindacalisti, repubblicani, anticolonialisti, antischiavisti, socialismo municipale, suffragiste, antivivisezionisti, liberali, vale a dire quella che al tempo era l’ala di sinistra, criticata dal Municipal Reform Party per le sue eccessive spese in servizi pubblici, tra cui anche la costruzione di belle case per il proletariato e un politecnico per le persone più disagiate. Dopo alcune discussioni la sede per la statua fu approvata dal comune di Battersea e fu inaugurata il 15 settembre 1906, nonostante giunsero minacce di ogni tipo, ma il sindaco disse di essere pronto alle conseguenze in nome degli interessi dell’umanità e del mondo degli animali, e non mancò, oltre ai dottori, un accenno ovviamente negativo anche ai cacciatori e coloro che si vestivano con piume strappate ad animali vivi. Presto cominciarono proteste e tentativi di danneggiare la statua da parte degli studenti di medicina e veterinaria, che volevano difendere il proprio onore dall’infamia rappresentata dalla statua, al punto che si dovette installare un sistema di allarme e sorvegliare la statua di fatto 24 ore al giorno. Si tentò di manifestare anche a Battersea e quando uno studente si ferì cadendo da un tram la popolazione locale esclamo: “è la vendetta del cane marrone!”.

La statua era nel frattempo diventata un simbolo delle classi oppresse, tra cui suffragiste, sindacalisti, e proletari contro le classi più privilegiate. Anche se il proletariato era meno interessato della classe media alla questione, esso percepiva affinità con gli animali: si disse ad esempio durante un consiglio comunale che anche sui proletari venivano di fatto eseguiti esperimenti.

Il movimento pro vivisezione cercò di infiltrarsi e interrompere con la violenza diversi dibattiti sulla vivisezione, condotti in genere da attiviste donne, con urla, insulti, trombette, fialette puzzolenti e pure con una grossa maschera rappresentante il cane marrone. Uno di essi mandava baci sarcastici a Lind-Af-Hageby. Erano gli anti doggers, che cercavano di disturbare anche i convegni delle suffragiste ritenute responsabili di tutto, come nel dicembre 1907, dove ribaltarono sedie e tavoli. Le cose cominciarono però a volgere veramente al peggio quando nel comune di Battersea i progressisti persero le elezioni. Si cominciò a parlare dei costi eccessivi non solo in settori del pubblico (furono tagliati molti posti di lavoro comunali) ma anche per la sorveglianza continua della statua da parte della polizia. Il 18 marzo ha luogo una enorme manifestazione a Trafalgar Square a favore della statua che comunque poco dopo viene rimossa durante la notte e poi distrutta. Non vi fu nulla da fare. Lind-af-Hageby si impegnò anche per i diritti delle donne e contro la guerra con diverse pubblicazioni. Fu attiva per il voto alle donne. Fu criticata comunque dagli abolizionisti radicali che le contestarono un approccio gradualista al tema della vivisezione. Una nuova statua dedicata al cane marrone fu eretta nuovamente a Londra solo nel 1985.

Fino ad arrivare ai nostri giorni, a Carol J. Adams che in “Carne da macello. La politica sessuale della carne” illustra il nesso storico inscindibile tra specismo, patriarcato, capitalismo, colonialismo e razzismo, a Breeze Harper e le sorelle Aph e Syl Ko in prospettiva antirazzista e afroamericana, a Sunaura Taylor con gli agganci all’abilismo, e alla variegata corrente dell’ecofemminismo.

Oggi è giustamente in corso un vivace dibattito sulle strategie della lotta, che coinvolge le diverse visioni politiche (o purtroppo apolitiche) della società in essere. È da sempre mia personale opinione che la base necessaria su cui costruire non possa che essere anticapitalista e socialista, laddove alcune oppressioni presentano specificità non delegabili per un palese conflitto di interessi (le donne devono guidare il proprio movimento di liberazione, lo sfruttamento domestico non è assimilabile o incorporabile nel capitalismo, nonostante intersezioni). Ritengo che appellarsi al senso morale dell’oppressore sia inutile, non trattandosi di una guerra di idee, e che soltanto equilibri di forze variamente e ampiamente intesi (sia a livello istituzionale che extra parlamentare) possano garantire dei risultati. Cultura e informazione servono “solo” a formare una coscienza di classe, anche se spesso vengono considerate un ciclo completo. Occupare le strade, le piazze, scioperare, associarsi e creare disagio materiale alle strutture vigenti rimane ieri come oggi prioritario in ottica di una liberazione totale.

di Silvia Molè, Parte in Causa – Associazione Radicale Antispecista

Fonti:
“Charles Darwin, Sulla vivisezione, i documenti di un dibattito” a cura di Alessio Cazzaniga e Fabio Esposito, Edizioni Mimesis
“Il caso del cane marrone”, di Peter Mason, Edizioni Vanda

Parte in causa
Parte in Causa è una piccola associazione antispecista di impronta politica, considerando la lotta contro il capitalismo imperialista e il patriarcato come centrale ai fini di una liberazione totale in ottica di alleanze e supporto a ogni classe oppressa. Sostiene pratiche liberazioniste a ogni livello, considerando la Resistenza Animale parte del processo storico del pianeta.

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