Tra la moda di impostare le sue sententiae come stato sui social, e la ripresa dei suoi modelli di saggistica, Lucio Anneo Seneca rappresenta un’icona immortale del mondo classico. Perchè? Prima di scoprirlo, bisogna precisare che quest’uomo non incarnava affatto il saggio stoico che si potrebbe immaginare. Basti pensare che, a detta di Tacito, possedeva una collezione di cento tavoli di cedro. Ciò, come scopriremo, non era esattamente coerente con gli ideali che Seneca predicava nelle sue opere. Si tratta solo della prima di una lunga serie di contraddizioni riscontrabili nella sua vita.
Seneca nacque intorno al 4 a.C. a Cordoba, da una famiglia del ceto equestre che presto gli permise di trasferirsi a Roma. Qui ebbe numerosi contatti con filosofi cinici e stoici. Questi lo influenzarono notevolmente nella sua produzione, ma poco nel suo agire. Cio si può notare in particolare nel momento in cui l’imperatore Claudio lo condannò all’esilio. Infatti, nella “Consolatio ad Helviam matrem” con grande convinzione affermava che l’esilio non fosse un male, per poi abbandonarsi in una patetica supplica a Polibio, funzionario imperiale, per ottenere il ritorno in patria.
Tornato dall’esilio grazie all’intercessione della moglie di Claudio, gli fu affidata l’amministrazione al fianco del giovane Nerone. Dinanzi al potere di quest’ultimo, Seneca abbassò spesso la “voce”, come egli stesso ammette nel “De Vita Beata”. Basti pensare che si fece costringere a scrivere un’orazione per giustificare il matricidio commesso dall’imperatore. Eppure, nel “De Costantia Sapientis”, predicava il mito dell’imperturbabilità e dell’indipendenza del saggio. In seguito all’appoggio ai capricci di Nerone, Seneca aveva accumulato una quantità ingente di beni materiali, ai quali era molto attaccato. Ma ancora, nel De vita beata predicava il distacco dalla contingenza di questi ultimi.
Una vita di luci ed ombre aveva, quindi, caratterizzato quest’uomo avvolto quasi da un alone di sacralità. Per fare chiarezza, analizziamo la sua produzione.
La produzione attribuita con sicurezza a Seneca si divide in 10 dialoghi, 3 trattati, 8 tragedie e un’ opera satirica dedicata a Claudio. I temi di queste ultime sono racchiusi tutti con splendida efficacia nelle 124 “Epistulae morales”. Questa enorme quantità di scritti giunti fino ai giorni nostri punta a definire perfettamente la virtù del saggio. Quest’ultima è accessibile a tutti e rappresenta il mezzo per raggiungere l’autarkeia, stato di totale autosufficienza dell’animo.
I principali temi trattati sono la morte, l’imperturbabilità del saggio e il controllo delle passioni. Nella prosa filosofica egli descrive gli effetti dell’acquisizione di questi valori. Nelle tragedie descrive le conseguenze della perdita del senno, prerogativa di questi ultimi. In primo luogo, il saggio, distaccato dalla contingenza dei beni materiali, non deve avere paura della morte. Quest’ultima deve essere dimenticata vivendo al massimo l’unica dimensione temporale accessibile all’uomo, il presente. Questa rivisitazione del carpe diem è ritrovabile nel “De Brevitate Vitae”. In questo trattato è presente una delle sententiae più celebri.
“Breve è quella parte dell’ esistenza che noi viviamo davvero…Il resto non è vita, ma tempo.”
Il significato della vita per Seneca è raggiungere il controllo di quel mare di ragione e passioni che è l’animo umano. Sarà questa la base filosofica del “De Ira”. Anche per questo, il saggio deve “abbracciare ed amare” la vecchiaia, come afferma nell’Epistola 12.
“Ciò che di più piacevole ha in sè ogni piacere, lo differisce alla fine di sè”.
Lapidario come sempre, con poche semplici parole, il filosofo rende la sua idea di vecchiaia alla perfezione.
Al fine filosofico se ne aggiunge uno politico, che spicca nei trattati e nella satira, ma presente anche nelle tragedie. Seneca, principalmente uno stoico, pur accettando la figura del principe, volle tenere a freno l’ esuberanza di Nerone.
Prerogativa del principe ideale deve essere la clementia. Questa risulta utile dal punto di vista della ragion di stato, in quanto garantisce una maggiore obbedienza del popolo. È questa la materia del “De Clementia”, primo trattato senecano. Il filosofo di Cordoba ribadirà il concetto nel “De Beneficiis” innalzando la clementia a nuovo valore del cives romanus. Quest’ultima non è preclusa a nessuno, in quanto ogni essere umano ha la stessa origine.
Tante meravigliose sententiae, tutte sublimate da un sapiente uso dell’inconcinnitas, uno stile che non lascia indifferenti. Questo è basato sull’asimmetria, sul produrre quell’effetto di “sfregamento” che contraddistingue la morale cinica. È proprio in quest’ultimo la formidabile fortuna dei suoi scritti.
Eppure risulta palese che Seneca fosse soltanto un gran predicatore. Dove sono i fatti? Non ci sono, e lo ammetterà lui stesso in un passo del “De Vita Beata”. Il mito dell’autarkeia non è facile da raggiungere. Seneca afferma di non essere un saggio, ma di aver appena cominciato a immettersi nella strada della virtù, che nel suo contesto storico gli appare impraticabile. Le sue ampie meditazioni sono proprio il frutto di quel retirum, che si concluderà con il suicido.
Durante la congiura dei Pisoni, Seneca ricevette da Nerone l’ordine di uccidersi. In alternativa sarebbe stato fatto fuori brutalmente dall’imperatore in persona. Si recise così le vene delle braccia e delle gambe per ricongiungere la sua anima con l’assoluto. Questa volta, al momento di spirare, fu coerente con l’atteggiamento sprezzante nei confronti della morte che tanto predicava.
Corrado Imbriani