Storie di gente felice Lars Gustafsson e la ricerca sull'uomo
Crediti della fotografia: Valentina Catozzi

Edito per la prima volta a Stoccolma nel 1981 da Albert Bonniers Förlag, arriva quest’anno in Italia, per la casa editrice Iperborea, Storie di gente felice dell’autore svedese Lars Gustafsson . Dieci racconti che da differenti latitudini delineano le storie di “gente felice”, o quasi, costantemente alla ricerca di un senso, in bilico tra realtà e immaginazione.

L’umanità di Gustafsson tra nostalgia e curiosità

I protagonisti dei racconti di Gustafsson sono tutti viaggiatori: la penna dello scrittore, considerato “il Borges del Nord”, li coglie spesso in movimento da una parte all’altra del pianeta o da un capo all’altro della loro vita. Ne risulta un variegato ventaglio di profili: musicisti, funzionari ferroviari che di notte, in gran segreto, scrivono di filosofia; insegnanti universitari, ingegneri chimici che non rimangono mai fermi nello stesso posto e si pongono il medesimo interrogativo. Si tratta di racconti apparentemente diversi, ma dal comune denominatore: la domanda che ricorre è identitaria, e si fa presto a capire che non ha risposta. Sono infatti un’avvertenza tra le righe il titolo (Storie di gente felice) e la citazione in esergo:

“A un certo livello di complicazione, tipo quando un ago si è perso in un pagliaio, o un bambino in un paesaggio troppo vasto, non c’è più alcuna possibilità di cercare. Dobbiamo trovare, alla cieca nel buio”.

Come se Gustafsson delineasse un primo ritratto delle sue creature: sistemi complessi che cercano una parvenza di senso nel labirintico mondo contemporaneo e interiore, destinati ad attraversare il buio e l’ambiguità di una ricerca mai appagante per definizione.

Storie di gente felice: Lars Gustafsson e la ricerca sull'uomo
Copertina di Storie di gente felice di Lars Gustafsson. Crediti: Iperborea. https://iperborea.com/titolo/546/

In Storie di gente felice si intersecano continuamente il piano della realtà e quello del sogno: in Quel che non ci uccide, tende a renderci più forti il professore di letteratura corre ogni mattina arrovellandosi sul ricordo di un passato da cui non riesce a uscire. Come in altri racconti della raccolta, Gustafsson procede per anticipazioni e improvvise rivelazioni; il motivo della sua corsa – azione con cui tra l’altro inizia la storia – sarà in parte svelato alla fine. Nel frattempo, il ricordo (e quindi il sogno) diventa un profumo, un paesaggio, un mobile (e quindi la realtà) in cui perdersi. L’uomo ammette esplicitamente di aver difficoltà a provare dolore; ne L’uccello nel petto, invece, la protagonista è prigioniera di un malessere (“il mostro”) che non sa chiamare per nome e che riconoscerà soltanto dopo un’aspra lotta interiore.

Filo rosso riconoscibile è quello del valore delle parole: un mezzo per conoscersi e conoscere è infatti il linguaggio. La Grandezza colpisce dove vuole si apre nell’infanzia del protagonista che verrà abbandonato in un manicomio e termina descrivendone la vecchiaia in solitudine, immersa nello stesso problema che c’era anni prima: l’incomunicabilità col mondo esterno, la mancanza di un senso e la confusione tra mondo reale e mondo immaginato. Come scrive Ingrid Basso nella postfazione, Storie di gente felice è percorso da una “strutturale impossibilità di far coincidere l’ordine pluridimensionale del reale con l’ordine unidimensionale del linguaggio”. Spesso è da questa crepa che deriva la ricerca di altre realtà possibili nei personaggi di Gustafsson.

Trovare la felicità nel mondo contemporaneo è possibile?

La raccolta di Gustafsson non si addentra soltanto nelle viscere dei sentimenti, ma anche della società e della realtà. L’interrogativo principale è quello della felicità: si può stare bene in un mondo frenetico e dedito al consumismo, in cui l’uomo non ha più certezze? D’altronde, l’ambientazione non è poi così lontana dai giorni odierni; i personaggi “vivevano in un mondo preconfezionato, circondati di cose che fingevano di essere desiderabili senza esserlo veramente”. In balia dell’incertezza, l’uomo è in crisi anche con il concetto di realtà. Quanto succede ne Le quattro ferrovie di Iserlohn è esemplare: la violoncellista costruisce un modellino ferroviario per osservare il mondo con distacco e nella sua totalità, come si può fare con la letteratura. E la ferrovia su cui fantastica è piena di improvvisi cambi di rotta e sbocchi su luoghi inaspettati come il mare: così, secondo lei, dev’essere la vita. E l’immagine della ferrovia si aggrappa subito al motivo del viaggio e a ciò che ne consegue, cioè un desiderio mai stanco di partire e tornare, a volte senza sapere precisamente da e verso dove.

“Tutto il potere del mondo non si basava forse sulla stessa grande menzogna: che il senso delle nostre vite si trovi al di fuori di noi? Ma se invece il senso non può trovarsi che dentro di noi, in quel buio che è il nostro stesso io, al di là di tutte le trappole morali, allora naturalmente non possiamo che rimanere per sempre sconosciuti a noi stessi.”

Il senso di abitare luoghi e tempi si lega anche alla relazione dell’uomo col proprio corpo e con la fisicità del mondo: ricorre il motivo dell’acqua, e di conseguenza quello dello specchio, che mostra chiaramente come i personaggi siano assillati dall’urgenza di definire l’universo.

“[…] prenda per esempio questo lago. Certi giorni quando sono giù di morale ho l’abitudine di scendere sulla riva. I blocchi di roccia se ne stanno là fuori, enormi e pesanti, ognuno come un’asserzione che non si lascia confutare – e  in momenti del genere vedo che il lago è sempre stato triste. Il mondo naturale è così. Siamo solo noi che cerchiamo  di creare un senso”

Forse è nella mancanza di senso che comincia la Grandezza, suggerisce il protagonista di Quel che non ci uccide, tende a renderci più forti (o lo stesso autore?). Forse è felice chi non ha bisogno di trovare necessariamente un senso a tutto. Ma la risposta non viene mai svelata, il quesito rimane aperto e, come dimostra l’intera raccolta, la sua soluzione può annidarsi ovunque.

Arianna Saggio

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