Rousseau di sera, governo si spera. Con una nota arrivata nella tarda serata di domenica sul blog del Movimento, i pentastellati hanno annunciato che si svolgerà martedì la consultazione degli iscritti sulla piattaforma online del M5S che dovrà autorizzare (o bocciare) la formazione di un Conte bis, appoggiato stavolta dal PD insieme al Movimento 5 Stelle. Un esecutivo che in molti (soprattutto nel PD, come vedremo) hanno definito “governo di svolta”, in contrasto con la retorica del “governo del cambiamento” che caratterizzava l’esperienza gialloverde. Ma quali sono le analogie e le differenze tra questi due accordi di governo? Come si declinano queste definizioni sul piano politico e comunicativo?
Gli accordi di governo come compromessi politici
Quando M5S e Lega iniziarono a discutere di un accordo programmatico per dar vita al “governo del cambiamento”, vigeva tra le due parti un non detto evidente: non disturbarsi a vicenda. Il famoso contratto nasce proprio come semplice unione dei programmi elettorali delle due forze in questione, più che come programma unico e uniformato. Difficilmente, altrimenti, avrebbero potuto convivere Reddito di Cittadinanza e Quota 100, salario minimo e Flat Tax.
Tutto ciò anche perché Lega e M5S facevano riferimento a due elettorati completamente diversi: sia in senso geografico (il Nord della Lega opposto al Sud del M5S) sia per composizione sociale (il “Popolo delle partite IVA” per la Lega contro i lavoratori dipendenti, i precari e i disoccupati per il M5S). E infatti proprio su un tema come la TAV, sul quale le due forze divergevano, per caratteristiche quasi genetiche, in maniera evidente (e sul quale il contratto non era riuscito a mediare oltre un generico impegno a “ridiscuterne integralmente il progetto”) si è consumata la rottura.
Diverso il discorso per quanto riguarda gli accordi di governo tra PD e M5S. Zingaretti ha da subito ribadito la sua volontà di rompere con il modello del contratto, giudicato fallimentare perché semplice somma di promesse elettorali, preferendo invece un’intesa più “snella” su pochi punti programmatici, ma condivisi da entrambe le forze. Una scelta, anche in questo caso, figlia delle circostanze: se in campagna elettorale il M5S ha attribuito al malgoverno del PD praticamente tutti i mali dell’Italia, mentre il PD ha rivendicato quanto fatto con la lista delle 100 cose fatte e da migliorare, è evidente che i due programmi presentano evidenti divergenze.
E se su alcuni punti l’incontro è quasi naturale (salario minimo, welfare, ambiente) e su altri è tutto sommato raggiungibile (taglio dei costi della politica, riforma della giustizia), alcuni nodi restano irrisolti, in particolare i “residui” dell’ultimo esecutivo gialloverde: sulla questione migranti e sull’autonomia differenziata M5S e PD conservano posizioni molto diverse. Forse troppo.
L’importanza della comunicazione: dal “governo del cambiamento” al “governo di svolta”
Scendere a patti col nemico, appunto. Già a un primo impatto appare evidentemente la differenza di strategie comunicative nei due casi: lo scorso anno, e durante tutti questi quattordici mesi, Lega e M5S hanno battuto tantissimo sulla definizione di “governo del cambiamento”, per indicare un radicale cambio di passo rispetto agli esecutivi precedenti. Non solo: le trattative tra i gialloverdi erano costantemente accompagnate da foto condivise (da entrambe le compagini) sui social network, quasi a voler documentare passo passo la nascita di quell’alleanza. Senza nulla di cui doversi vergognare.
Ma quando gli accordi di governo si fanno con il principale bersaglio delle invettive fin dalla nascita del Movimento, ecco che qualcosa cambia. Gli incontri non sono più spiattellati sui social, la parola PD scompare sostituita da lunghi giri di parole in politichese stretto, tutto si fa più nascosto e sottobanco. E soprattutto, grande enfasi viene posta sul ruolo di Giuseppe Conte come garante della bontà dell’accordo. Sperando che la fiducia nel premier porti a superare la diffidenza per l’alleato. Lo dimostra lo stesso quesito su Rousseau, o meglio, la differenza tra i due quesiti: se l’anno scorso si chiedeva ai votanti di “approvare il contratto del governo del cambiamento”, quest’anno (dopo una citazione en passant al Partito Democratico) si chiede ai militanti M5S di promuovere un nuovo esecutivo a guida Conte.
Una trasparenza che invece è emersa, forse a sorpresa, da parte del PD. Le poche foto (come quella che fa da copertina a questo articolo) degli incontri tra le due delegazioni vengono proprio dai canali del Partito Democratico, che hanno inoltre fornito costanti aggiornamenti sulle trattative e hanno persino coniato un proprio slogan per il nuovo esecutivo nascente: un “governo di svolta”. Una definizione forse politicamente azzardata (se le due forze erano protagoniste degli ultimi due esecutivi e la tanto discussa “discontinuità programmatica” non sembra farsi vedere all’orizzonte) ma importante dal punto di vista propagandistico.
In un governo contano anche le poltrone…
Infine, è possibile notare nei due accordi di governo un diverso approccio anche nella spartizione dei Ministeri e, più in generale, dei ruoli di potere. Più chiara l’impostazione dell’esecutivo gialloverde: un premier terzo come figura garante (Conte, appunto), due vicepremier che sono i capi politici delle forze di maggioranza (Salvini e Di Maio) e Ministeri assegnati in base alla forza parlamentare delle due compagini (quindi, più M5S che Lega).
Un metodo che però, secondo il PD, deresponsabilizza il premier fino a renderlo quasi un “burattino” nelle mani dei due vicepremier. Per questo, e a causa dell’imposizione del M5S riguardo al ruolo di Conte come presidente del Consiglio (quindi non una figura mediata dalle due parti), il governo “di svolta” vedrà probabilmente un incremento del peso della figura di Giuseppe Conte. In questo senso va, ad esempio, la scelta dei due partiti di risolvere lo stallo sui vicepremier rinunciando entrambi ad esprimere un candidato per questo ruolo.
Basterà affidare a Conte la responsabilità delle decisioni più discusse, sia riguardo ai nomi che ai programmi, per portare a casa questi accordi di governo? A Rousseau l’ardua sentenza.
Simone Martuscelli