C’è un Paese cristiano e conservatore nell’Africa orientale, dove la soglia tra omosessualità e pedofilia è talmente sottile che si pensa ad un legame tra le due. Si tratta dell’Uganda, o anche nota come la Repubblica dell’Uganda, da decenni scenario di una violenta caccia alle persone coinvolte in legami sessuali non binari e dove pochi giorni fa 389 legislatori su 391 hanno votato sì all’approvazione del disegno di legge contro l’omosessualità: pena capitale ed ergastolo contro donne e uomini lesbiche e gay; in caso di aggravanti, la pena di morte.
La mozione di Robina Rwakoojo
È stata Robina Rwakoojo, Presidente degli affari legali e parlamentari, a presentare in Parlamento la nuova proposta di legge anti-Lgbt e sarà il Presidente dell’Uganda Yoweri Museveni a decidere se tramutarla in legge o porvi un veto; ad opporsi i legislatori Fox Odoi-Oywelowo e Paul Kwizera Bucyana, secondo cui si tratta di una norma incostituzionale e in conflitto con i risultati raggiunti nel campo della lotta alla violenza di genere. La mozione, che sembrerebbe fare seguito a innumerevoli casi di denunce di arresti illeciti, violenze sessuali, casi di svestizioni pubbliche e sgomberi efferati contro diversi membri del gruppo di difesa delle minoranze sessuali del Paese, il Sexual Minorities Uganda (SMUG), ha destato la preoccupazione di diverse personalità internazionali: da Washington John Kirby, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, ha reso nota l’intenzione di incorrere in conseguenze di tipo economico qualora il testo entrerà in vigore.
La norma del 2009 e il caso Rolling Stone
La proposta di legge avanzata da Rwakoojo non ha rappresentato un caso isolato. Già nel 2009 il governo ugandese si attivò per la promozione di una norma volta alla punizione, anche attraverso l’attuazione della pena di morte, di individui omosessuali. La non approvazione del provvedimento, motivata dallo scontento delle comunità internazionali, non fermò il dilagarsi della campagna d’odio omofobica che trovò terreno fertile nell’attività giornalistica del settimanale ugandese Rolling Stone.
Nel 2010 il giornale, che successivamente chiuderà per illeciti e attività illegali, finanziò la diffusione di foto, nominativi e indirizzi di residenza di all’incirca un centinaio di persone gay e lesbiche. Secondo quanto riferito pubblicamente dall’allora direttore Giles Muhame, la pubblicizzazione su larga scala delle immagini, accompagnate dalla scritta «Hang them» – «impiccateli» –, e dei dati personali, simboleggiava un obbligo morale nei confronti dei cittadini e delle autorità, con le quali era necessario collaborare per portare a termine l’operazione di arresto di persone non binari spesso propense, secondo l’opinione pubblica, al coinvolgimento di milioni di bambini nella comunità Lgbt.
A scontrarsi pubblicamente e giurisdizionalmente contro le azioni perpetuate dal gruppo redazionale di Rolling Stone fu David Kato Kisule, attivista per i diritti umani e personalità influente all’interno del gruppo Sexual Minorities Uganda. Vittima di intimidazioni e minacce, intensificatesi a seguito della sentenza della Corte Suprema che condannò la violazione del diritto costituzionale di tutti i cittadini alla dignità e alla riservatezza privata perpetuata dal gruppo redazione del Rolling Stone, Kisule morì nella giornata del 26 gennaio 2011.
Fu una risoluzione del Parlamento europeo sull’Uganda datata 17 febbraio 2011 a condannare l’accaduto e a richiedere alle autorità ugandesi di avviare un’indagine approfondita e imparziale per ottenere giustizia per David, che si era duramente battuto contro la divulgazione di contenuti e informazioni strettamente personali diffusi prima da Rolling Stone e poi da emittenti radio e televisive, in un sistema socio-politico e religioso che accoglie forme di violenza contro membri della comunità Lgbt del Paese, in un clima di accoglienza alimentato dalle autorità vigenti.
In Uganda membri della comunità Lgbt vengono condannati
Solo in Mauritania, Somalia, Sudan e Nigeria del nord il codice legislativo prevede l’attuazione della pena di morte nei confronti delle persone coinvolte in relazioni sessuali non binarie. Una situazione che sembra destare la preoccupazione di diverse organizzazioni internazionali: il Parlamento europeo, le organizzazioni non governative, i rappresentanti di governo dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America.
Ed è proprio in Uganda, dove personaggi politici e religiosi estremisti pongono le basi per un conflitto sempre acceso nei confronti delle persone gay, lesbiche e trans, che tra il 2017 e il 2020 centonovantaquattro membri della comunità Lgbt vennero incriminati per il reato di omosessualità e venticinque di loro subirono una condanna.
Non è ancora stata resa nota la decisione del Presidente Museveni, che sembrerebbe non considerare il tema prioritario, ma che, secondo quanto riportato dalla CNN, solo nel 2014 parlò delle persone omosessuali definendole disgustose.
Arianna Lombardozzi