Eunice Kathleen Waymon, alias Nina Simone, nacque nel 1933 in una famiglia povera e molto religiosa del North Carolina. Nina Simone, insieme al sogno di divenire la più grande pianista classica «nera» d’America, ebbe un talento ineguagliabile. A due anni e mezzo suonava già a orecchio i salmi sull’armonium di famiglia, a quattro anni suonava insieme a sua madre reverenda con l’organo della chiesa di Tryon, a sei anni iniziava la sua formazione classica con un’insegnante di pianoforte, M. Massinovitch, che definì la sua «madre bianca». Si esercitava circa sei o sette ore al giorno, nonostante fossero anni molto turbolenti. Nel 1941 ci fu l’entrata in guerra degli USA e dal 1944 in poi vi furono tremende sommosse razziali.
Eunice sacrificò i piaceri della propria infanzia – per sé e per la propria famiglia – sull’altare della sua prodigiosità musicale.
In seguito, il 12 agosto 1950, svolse a Philadelphia l’esame d’ammissione presso il Curtis Institute, per cui – a detta della madre, Mary Kate Waymon – studiò circa sette ore al giorno affinché memorizzasse diciannove composizioni di musica classica. In ogni caso, ciò che accadde quel giorno resta tuttora un mistero. Ma un mattino dello stesso anno il destino si materializzò attraverso una lettera del Curtis Institute che confermava i dubbi della futura Nina Simone. Non fu ammessa dalla commissione bianca del conservatorio, ciò fece avvertire ancor di più il peso di vivere in un paese razzista che praticava apertamente il segregazionismo.
Eunice K. Waymon morì quello stesso giorno insieme alle sue illusorie aspirazioni. Ma la rabbia non scomparve, anzi si accrebbe sino a far nascere una magnifica concertista: Nina Simone. Nacque casualmente in una bettola con l’aria satura di fumo di sigaretta e il puzzo d’alcool del New Jersey: il Midtown Bar & Grill. Durante l’esibizione evocò il suo adorato Bach, citò i cantici e cosparse il tutto di gospel. Da quell’estate del 1954 cambiò nome: Nina come niña (bambina), Simone in onore della sua adorata cantante Simone Signoret. Dunque, la storia di Nina Simone iniziò ad Atlantic City.
Nonostante la contrarietà della famiglia, iniziò a suonare nei vari club di Philadelphia pur di sbarcare il lunario e propose anche una delle sue prime fantastiche interpretazioni in chiave jazz – che divenne poi una pietra miliare della sua carriera – I Loves You Porgy presa dall’opera Porgy & Bess di Gershwin, composizione reinterpretata da artisti come Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Miles Davis e Ray Charles. Il suo discreto successo la portò a conoscere l’agente Jerry Fields, ciò le diede la possibilità di suonare a New York, di registrare un disco e di conoscere il chitarrista Alvin Schackman, da cui non si separerà mai.
Nel 1956 Nina Simone incise – dopo aver firmato un contratto capestro – per la Bethlehem Records quattordici brani cover integrati in un album dalle coloriture jazz-pop. Il brano My Baby Just Cares for Me sarà il suo grande successo commerciale. Nel 1957 l’album Little Blue Girl venne finalmente pubblicato, definito dalla critica un disco inequivocabilmente jazz nonostante la reticenza di Nina Simone in quanto pianista classica. Nel 1959 per via del modesto successo musicale si trasferì a New York, però a causa delle ristrettezze economiche fu costretta a svolgere un lavoro da domestica, e ciò la spinse persino ad affogare le frustrazioni nell’alcool. Fu solo dopo aver conosciuto il contabile e mentore Max Cohen e dopo aver appreso le condizioni fraudolente dell’accordo sancito per la pubblicazione del suo primo album che firmò un contratto discografico più vantaggioso con la Coplix.
Il secondo album fu The Amazing del 1959, un disco sulla scia del primo ma con una maggiore presenza dell’orchestra. Tra le arie più conosciute vi fu Solitaire, brano ripreso dal grande Duke Ellington. Nina si stava ormai affermando nel mondo del music business e i suoi concerti esprimevano elementi erotici e insolenti che ammaliavano terribilmente gli astanti.
La morte di Billie Holiday nel 1959 fece convergere gli sconsolati amanti del jazz verso la figura di Nina Simone, considerata la sua naturale erede. Nina detestava tutto ciò, essendo lei una pianista classica, ma negli USA tutto quel che era nero era inevitabilmente jazz. In ogni caso, raggiunse meritatamente i suoi obiettivi: il palcoscenico, il denaro, il pubblico, una carriera, la rispettabilità e il successo.
Agli inizi degli anni ’60 conobbe gli intellettuali del panafricanismo James Baldwin, Langston Hughes e Lorraine Hansberry, che le insegnarono molto sulla questione razziale e sulla lotta per i diritti civili. In seguito, dopo molteplici live nei club di New York, sbarcò in Africa. Nina Simone avvertiva in sé la necessità di difendere e perpetuare la sua razza e la sua cultura che dalla terra africana s’era incarnata negli USA. Furono anni di violenze e rivolte per la comunità nera, uomini come Marcus Garvey, Malcolm X e Martin Luther King rivendicavano strenuamente equità sociale e diritti civili.
Nel 1962 Nina incise l’album Nina Sings Ellington dedicato al monumentale Duke Ellington. Suonò poi alla Carnegie Hall e il concerto fu un trionfo a tal punto da divenire un album live. Successo a parte, il clima acceso di razzismo gravava sull’animo di Nina, che trasformando la rabbia e il terrore in musica compose Mississippi Goddamn, pungente protest song.
Era divenuta ormai una figura emblematica del movimento per i diritti civili e fonte d’ispirazione per la generazione dei militanti neri. «La prima cosa che vedevo al mattino guardandomi allo specchio del bagno era il mio viso nero. E quello condizionava ciò che pensavo di me per il resto della giornata: ero una nera in un paese dove ci si poteva far uccidere per quella semplice ragione».
La musica di Nina Simone fu il riflesso del suo mutamento, fu un mix di gospel, classica, jazz, folk e ballate, ch’egli stessa battezzò Black Classical Music. Lei difendeva la dignità del suo popolo. Insieme a lei tanti altri artisti agognavano un cambiamento radicale nella società americana: Sam Cooke, Aretha Franklyn, Richie Havens, etc.
Dal 1963 in poi furono anni ancor più turbolenti: fu assassinato il presidente Kennedy e poi Malcolm X, Nelson Mandela fu condannato all’ergastolo e iniziò la guerra del Vietnam. Nonostante ciò, la major discografica olandese Philips – tramite un tale Big Willy – risollevò le sorti di Nina Simone trascinandola in Europa. La sua arte raggiunse l’apogeo, era al contempo affascinante, violenta, arrogante e mistica. Dal 1964 in poi vennero pubblicati Nina at Carnegie, In Concert e un singolo memorabile Pirate Jenny: un estratto da L’Opera da tre soldi di Weill e Brecht. Nel 1965 uscì il celeberrimo album I Put a Spell on You, opera esasperante che trasudava amore e morte con capolavori come Ne me quitte pas, Gimme Somme e Feeling Good.
La sua dilaniante instabilità emotiva si riversò in un altro album: Pastel Blues del 1965, un mix tra folk e gospel. Tra i vari brani v’erano due pietre miliari: Sinnerman e Strange Fruit, che incarnarono la disperazione, il disincanto e la rabbia bruciante di Nina Simone. In seguito si avvicinò ai Black Panthers, organizzazione che combatteva il Ku Klux Klan e mirava alla distruzione del capitalismo causa prima del razzismo e delle disuguaglianze.
In quegli anni furono pubblicati – con un’altra casa discografica, la Rca – gli album Wild is the Wind, con il famoso brano di denuncia Four Women, poi Sing the Blues e il lussuoso Silk & Soul, con brani storici come Consommation e l’inno ai diritti civili I Wish I Knew (How it would Feel To Be Free). Nina Simone era ormai consacrata come «grande sacerdotessa del soul». Nel 1968 fu ucciso brutalmente M. L. King, ciò scatenò una irrefrenabile onda d’urto in tutto il paese. La morte di King era l’atto cieco d’un’America iniqua e violenta. Nina furiosa pubblicò il live album ‘Nuff Said!, attraverso cui reclamava la necessità d’una rivoluzione. Dopo svariate esibizioni tra l’Europa e gli USA, pubblicò And Piano!, manifesto della sua sensibilità e del suo talento classico in opposizione alle etichette abusate dalla critica. In seguito uscirono due album dalle tinte folk e jazz: To Love Somebody e Black Gold.
Nel 1970 Nina, all’apice della sua arte musicale e scenica, ma fiaccata dalla stanchezza psicofisica, decise di mollare tutto e di dirigersi alle Barbados. Il suo distacco s’avvertì nell’album Here Comes The Sun in memoria di G. Harrison, ma con la sua versione gospel di My Sweet Lord folgorò nuovamente il pubblico con il suo essere ipnotico e inarrestabile. Il suo animo turbolento la spinse a vari andirivieni tra gli USA e le Barbados, e si allontanò dall’industria musicale, infatti l’ultimo album degli anni ’70 fu l’evocativo It Is Finished, una sintesi del suo impegno politico e della sua rassegnazione.
Nel 1974 andò in Liberia, luogo lacerato dal colonialismo ma terra di salvezza per qualsiasi afroamericano, soprattutto per lei che poteva godere lì della propria fama lontana dal music business. Nel 1976 si diresse in Svizzera, una realtà elitaria antitetica alla cultura e alla personalità di Nina, si esibì al Montreaux Jazz Festival, ma il suo animo tormentato non le concedeva tregua. Oscillava costantemente tra gli USA, l’Europa e l’Africa. Nel 1978 pubblicò l’album jazz-soul Baltimore, un disco della speranza che risollevò l’artista.
Dopo vari concerti in giro per il mondo, nel 1981 si recò a Parigi e registrò, nonostante le sue ripetute crisi di nervi, l’album Fodder On My Wings. Un’opera che esprimeva la sua odissea interiore e la sua sferzante critica all’omologazione insita nella civiltà. Nina era logorata da un furore lugubre e selvaggio e da stati profondi di depressione, l’arte e la follia in lei erano inscindibilmente connesse. Nonostante ciò gli svariati concerti tra Francia e Olanda furono trionfanti, vennero pubblicati molti album live e antologie dei suoi classici e molte furono le collaborazioni con vari artisti tra cui Miriam Makeba. Dunque, durante gli anni ’80 la «sacerdotessa del soul» era rinata.
Nina Simone aveva conquistato ormai un posto nel pantheon delle artiste maledette, tra Billie Holiday e Maria Callas.
Però i suoi demoni non scomparvero: a inizio anni ’90 si stabilì nei pressi di Aix-en-Provence ma spostandosi spesso tra Ghana, Tunisia e Amsterdam pur di placare le sue turbe. Nel 1993 fu pubblicato A Single Woman, album placido e romanticamente voluttuoso. Durante i live iniziò a sviluppare disprezzo per il pubblico e per il suo entourage, ciò aggravò le sue crisi. Era pervasa dal dolore e da un senso d’isolamento al punto da rinunciare a molte esibizioni. In quel periodo delicato ricevette numerosissimi riconoscimenti in quanto artista e in quanto «figura della lotta nera nel mondo». Persino il Curtis Institute – che in passato la umiliò – le assegnò il diploma di conservatorio ad honorem.
A fine anni ’90 le sue condizioni fisiche erano pessime. Nel 2000 si rifugiò nei pressi di Marsiglia, a Carry-le-Rouet auspicando la quiete. Poi suonò per l’ultima volta a Parigi nel 2001. La fragile Nina era ormai una donna solitaria, smarrita in un mondo monopolizzato dall’uomo bianco, era una artista riottosa ma piegata dalla propria intima agonia, al contempo il suo nome la rendeva eterna: una donna leggendaria.
Morì di cancro il 21 aprile del 2003, all’età di settant’anni, nella sua abitazione in Francia. Una delle più grandi artiste del XX secolo se ne andò in silenzio, ma la sua profonda voce tuttora risuona libera nell’aria.
«Vi dico cos’è la libertà per me: non aver paura». (Nina Simone)
Gianmario Sabini
Hai dimenticare di dire che sei un grande! E io ti stimo molto <3
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