Il 24 dicembre 1933 fu celebrata la prima Giornata nazionale della Madre e del Fanciullo, giornata indetta dall’allora governo fascista per premiare la maternità, “vertice dei valori spirituali ed affettivi“, e per dimostrare “il grande amore che il Duce ha per i suoi figli”. Nell’occasione vennero premiate, con una visita nella capitale, le 93 madri più prolifiche d’Italia e, dopo essere state ricevute dal Papa e successivamente da Benito Mussolini, esse ritirarono direttamente dalle mani del Duce un premio in denaro.
A distanza di ottantatré anni, il Ministero della Salute ci ripropone l’evento con nome diverso: in questi giorni, infatti, ha promosso una campagna chiamata Fertility Day (Giornata della Fertilità), il cui scopo è quello di esortare le numerose giovani coppie italiane a procreare prima dello scadere della fertilità, e di mettere in evidenza – sempre prima che sia troppo tardi – “la bellezza della maternità e paternità“, “il pericolo della denatalità“ ed “il rischio delle malattie che impediscono di diventare genitori“.
Alla campagna è stato affiancato il Piano nazionale della fertilità del Ministero, programma in cui la sessualità viene definita biologicamente ed esclusivamente destinata alla procreazione. Questa giornata avrà luogo il 22 settembre in numerosi Comuni italiani, e nelle città di Roma, Bologna, Catania e Padova saranno addirittura organizzati i cosiddetti Villaggi della Fertilità, dove saranno presenti anche delle aree dedicate ai bambini denominate “Lo sai che”, in cui “i più piccoli possono conoscere la fisiologia del corpo umano sotto la guida di tutor specializzati“.
Insomma, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio salto nel passato, più precisamente nel ventennio mussoliniano: donne della patria chiamate ad ubbidire ad un preciso ordine (o richiamo) governativo. L’aspetto che lascia più perplessi di questo triste sequel del Family Day, sono gli slogan e le grafiche che trasudano fascismo comunicativo da ogni poro. Non solo dilaga la convinzione che mettere al mondo dei figli sia un dovere, un servizio reso alla comunità, frutto di un sentimento innato di generosità nei confronti dell’umanità, e non una scelta (stando allo slogan “la fertilità è un bene comune“), ma viene anche alimentata la concezione del corpo e dell’utero come beni comuni.
Di conseguenza, non solo questo diventa un altro modo per attribuire un nuovo significato al senso di esistenza del corpo femminile e delle scelte riproduttive autodeterminate che lo riguardano, ma significa anche che tutti possono avere diritto di parola e di intervento sulle scelte che prendo riguardanti il MIO corpo, il MIO utero, quello che -eventualmente- c’è dentro e la MIA gravidanza.
Non è solo il senso dell’esortazione fascista a fare figli per la patria che lascia perplessi, ma anche il forte aspetto escludente di questa campagna. Non solo si escludono tutte le altre alternative esistenti per diventare genitori, arrivando così a parlare implicitamente di eterosessualità obbligatoria, ma si colpevolizza anche chi non è fertile, paragonando l’infertilità ad una malattia e continuando a far sentire numerose donne come se fossero “donne a metà”.
Ed è divertente vedere chi, fino a qualche mese fa, ha fortemente contrastato la fantomatica e tanto temuta Teoria Gender, che non è altro un tentativo di difendere la propria libertà di amare e di autodeterminazione, ribadendo l’urgenza di un programma di educazione sessuale laica e di saperi di genere nei luoghi della formazione, uscirsene con un programma che educa, fin dalla giovane età, allo stereotipo della donna-per-forza-madre, imponendoci nuovamente la procreazione come unica strada per sentirsi realizzate.
Perché, in fin dei conti, è di questo che si tratta: essere definite e determinate in base alla nostra capacità riproduttiva. Dare il potere al Governo di mettere un lucchetto sul nostro utero per renderlo un servizio pubblico, e a chiunque di interferire sulle decisioni che prendiamo riguardanti il nostro copro. Affermare che il fine ultimo di una donna è la maternità, ricordandoci ansiosamente che “la bellezza non ha età; la fertilità sì“. Ma a me tutto questo non sta bene: prima di essere una donna, che il Ministero lo voglia o no, sono una persona, e come tale voglio sentirmi libera di prendere decisioni riguardati il mio corpo senza che nessuno si senta in diritto di interferire. Perché la fertilità è affar mio, e non si piega alla necessità di Stato. E perché il mio non è un Corpo di Stato.
Ana Nitu