Aleksandra Kollontaj, fra le protagoniste della Rivoluzione d’ottobre, nacque a San Pietroburgo nel marzo del 1872 in una famiglia dell’antica nobiltà russa. Ciononostante, sin da subito iniziò a scontrarsi con il mondo da cui proveniva, percepito da Kollontaj foriero di disuguaglianze economiche e sociali contro le quali si batterà per tutta la vita. Sposò un ingegnere contro il volere della sua famiglia per poi, nel 1896, insoddisfatta della vita coniugale, trasferirsi a Zurigo per intraprendere gli studi economici. Di qui si legò sempre di più alle correnti politiche marxiste, divenendo fra gli esponenti di maggior rilievo nel movimento socialista, accanto a Vladimir Lenin e Clara Zetkin.
Nel 1915 si unì ai bolscevichi, senza però mai abbandonare la lotta femminista, infatti, come sottolineato da Martina Ricci, «lei credeva che il socialismo marxista fosse la migliore via per raggiungere l’emancipazione femminile. Sosteneva l’idea che la liberazione della donna fosse legata inseparabilmente alla liberazione di uomini e donne dal capitalismo». Ricoprì un ruolo di spicco nell’Unione Sovietica e, anche in seguito agli attriti in seno al proprio partito, che la condussero a lasciare il suo incarico di ministra, portò sempre avanti il suo lavoro teorico e un’instancabile lotta per l’emancipazione della donna e dell’umanità intera.
Aleksandra Kollontaj fu un’accanita valchiria della rivoluzione, fu una teorica marxista e femminista particolarmente acuta, fu nel 1917 la prima donna a ricoprire il ruolo di ministra e, successivamente, di ambasciatrice per l’Unione Sovietica. Il suo lavoro ebbe un influsso centrale anche negli Stati europei, in quanto le sue proposte di legge furono un modello per il sistema di Welfare State.
Aleksandra Kollontaj e l’emancipazione della donna attraverso il lavoro
Fulcro delle sue teorizzazioni è sempre stato un’instancabile attenzione all’emancipazione della donna che, secondo Aleksandra Kollontaj, non era scindibile dal progetto rivoluzionario comunista. La liberazione economica e l’emancipazione sessuale era necessario fossero saldamente legate, in quanto la liberazione della donna non era perseguibile in un contesto di femminismo borghese, per come lei lo aveva esperito, né tantomeno in un movimento meramente identitario come sarà a partire dalla seconda ondata di femminismo. Infatti, Kollontaj affermava che: «in Russia c’era già un movimento piuttosto forte costituito da donne di estrazione borghese, ma la mia ideologia marxista mi faceva vedere con estrema chiarezza che la liberazione della donna si poteva raggiungere solo in quanto risultato di una vittoria che imponesse un nuovo ordine sociale ed un nuovo sistema economico».
Kollontaj intuisce che la chiave di volta nel processo di emancipazione della donna era costituito dall’accesso al lavoro salariato e, conseguentemente alla vita pubblica e politica. Il lavoro poteva garantire l’autonomia economica della donna e, dunque, una maggiore libertà anche in altri ambiti dell’esistenza, svincolandola dal ricatto materiale che la soggiogava all’uomo, unico detentore, fino a quel momento, delle risorse economiche necessarie alla sussistenza della famiglia. Il lavoro viene concepito come strumento di liberazione e, al contempo, fonte di autorealizzazione sul piano individuale e porta d’accesso alla dimensione pubblica e politica, in grado di garantire la partecipazione alla vita della comunità. Come affermato da Ricci: «la “nuova donna” socialista proposta da Madame Kollontaj è quindi un soggetto autosufficiente e autonomo della società. Lei crede che il lavoro sia lo scopo principale dell’esistenza. Esso non rappresenta solo una conquista d’indipendenza economica, ma assume anche il ruolo di strumento d’autorealizzazione personale e di partecipazione alla vita politica».
Permaneva, però, il problema del lavoro domestico: come poteva il lavoro salariato divenire uno strumento di emancipazione, se la donna continuava a dover portare da sola sulle proprie spalle, al contempo, il peso del lavoro domestico? Al progressivo ingresso della donna nella dimensione pubblica, infatti, non era conseguita una maggiore partecipazione dell’uomo all’interno delle mura di casa, garantendo così un apporto significativo nei lavori di cura, da sempre ad appannaggio delle donne. Il lavoro di cura continuava a essere invisibilizzato e non riconosciuto, nonostante la sua imprescindibile centralità nella riproduzione e nel mantenimento dei nuclei familiari e, infine, nell’esistenza delle comunità politiche stesse. «Il capitalismo ha quindi messo un grande fardello sulle spalle delle donne, le ha rese delle salariate, pur restando schiave del carico domestico».
Dopo la presa di potere da parte dei bolscevichi, Alexandra Kollontaj diventò ministra presso il Dipartimento degli Affari Sociali e portò avanti una serie di riforme sociali indirizzate alle famiglie e alle donne, con l’obiettivo di minare progressivamente le fondamenta dell’istituto della famiglia tradizionale, una gabbia dorata che andava disgregata completamente. Secondo Kollontaj, in una società comunista, nell’utopica società di domani, tutto il lavoro domestico, fra cui la cura e l’educazione dei figli, sarebbe dovuto diventare una responsabilità dell’intera società, attraverso la socializzazione dei lavori di cura.
Per la realizzazione di questo progetto rivoluzionario, ella riteneva fosse necessario partire dalla creazione di punti di ristoro pubblici, cucine aperte a tutti che avrebbero restituito alle donne le ore impiegate nella preparazione dei pasti alle proprie famiglie, che quest’ultime avrebbero così potuto finalmente riservare allo svago, all’educazione e a sé stesse. Al contempo, risultava necessario garantire una serie di ulteriori servizi collettivi che avrebbero trasformato le attività domestiche in un’economia socializzata: lavanderie, sartorie, asili e nidi d’infanzia, istituti scolastici di qualsivoglia tipo, avrebbero affrancato le donne dal lavoro domestico, trasformando la cura reciproca in uno degli obiettivi principali che qualsiasi comunità politica dovrebbe perseguire collettivamente.
Nonostante le riforme radicali portate avanti, dalla legge sul matrimonio, a quella sul divorzio, dall’aiuto statale alle madri e all’aborto; Kollontaj ben presto si rese conto che «nella coscienza delle persone e nel rapporto tra i sessi è rimasto quasi tutto come prima», anche in una nascente società comunista. Infatti, scriveva nel 1926: «i limiti dell’attività extra-domestica, come strumento di liberazione, appaiono evidenti nei paesi socialisti europei, dove la condizione delle donne è indubbiamente paritaria per quanto riguarda le possibilità di lavoro e la legislazione (pieno impiego, diritto di aborto, divorzio), ma è rimasta ancorata ai modelli tradizionali per quanto riguarda il loro ruolo all’interno della struttura famigliare».
Non erano sufficienti i mutamenti giuridici per garantire un reale cambiamento, l’emancipazione della donna necessitava anche di un radicale stravolgimento dei paradigmi e della mentalità dominanti. Ciò fu evidente soprattutto nel momento in cui Kollontaj iniziò a scontrarsi con gli stessi compagni del proprio partito, che dopo aver supportato in un primo momento le sue proposte, relative alla famiglia e alle donne, le misero da parte liquidandole con sufficienza, affermando vi fossero problemi più urgenti nella embrionale Unione Sovietica.
Liberazione sessuale e morale borghese: Largo all’Eros alato
Nonostante il discredito che le veniva riservato, continuò a occuparsi di costume e morale, tematiche che lei riteneva centrali in un’ottica rivoluzionaria. Kollontaj credeva che fosse prioritario focalizzarsi sulla dimensione erotico-affettiva e non soltanto sulle problematiche economiche in quanto, al fine di costruire una società realmente libera, era necessario sciogliere gli antichi nodi che, nella dimensione familiare, costringevano i soggetti a vivere in relazioni basate sul paradigma proprietario che lacerava la loro autonomia e il loro potenziale espressivo. In tal senso, risulta fondamentale il suo testo Largo all’Eros alato, una lunga lettera redatta nel 1923 e indirizzata alla gioventù lavoratrice, in cui sottolinea che: «per millenni, una cultura fondata sull’istinto di proprietà ha inculcato negli uomini la convinzione che il sentimento d’amore aveva anch’esso come base il principio di proprietà. L’ideologia borghese ha messo in testa alla gente l’idea che l’amore, compreso l’amore reciproco, dava il diritto di possedere interamente e senza spartizione il cuore dell’essere amato. […] Ma può forse un simile ideale corrispondere agli interessi della classe operaia? […] Quanto più numerosi saranno i fili tesi da animo ad animo, da cuore a cuore, da spirito a spirito, tanto più agevole sarà la realizzazione dell’ideale della classe operaia: la solidarietà fra compagni e l’unità».
La rivoluzionaria russa auspicava una società in cui i nessi di reciprocità sarebbero divenuti sempre più multiformi e diffusi nella collettività, in cui sarebbe caduta la piramide gerarchica che relegava il matrimonio sulla sua cima e qualsivoglia altra relazione alla sua base. Difatti, ella scrisse che «il difetto permanente dell’amore così com’è al giorno d’oggi è che, assorbendo i pensieri e i sentimenti dei cuori amanti, esso distacca e isola la coppia innamorata dal resto della collettività».
Una parificazione dei diversi modi di entrare in relazione con gli altri avrebbe condotto a una reale collettivizzazione delle esistenze in un’ottica comunitaria di mutuo sostegno, necessario per la realizzazione, ad esempio, della socializzazione dei lavori di cura che Aleksandra Kollontaj aveva teorizzato. La rivoluzionaria russa evidenzia, quindi, la necessità di una rivoluzione totale che includa la sovversione del paradigma sessuo-affettivo borghese allo scopo di liberare le soggettività e l’eros individuale-collettivo: «la morale ipocrita della classe borghese ha strappato senza pietà le piume dalle ali multicolori e sgargianti di Eros, obbligandolo a frequentare unicamente le coppie legittime. Al di fuori del matrimonio, l’ideologia borghese lascia posto unicamente a un Eros senza piume e senza ali».
Riprendendo il nucleo del pensiero di Aleksandra Kollontaj è chiaro che una rivoluzione sociale priva di una rivoluzione affettiva sarebbe frammentata e incompiuta.
Celeste Ferrigno