Chi scrive è tra quelli che Ayrton Senna da Silva rischierebbe addirittura di non averlo mai sentito. Forse esagero, forse lo dico perché non so davvero cosa il tre volte campione del mondo abbia rappresentato per la storia.
Un ricordo troppo lontano, che non mi appartiene, e che comunque mi immobilizza. Sì, perché potrebbe raccontartelo chiunque, anche distrattamente, quando, ogni primo maggio l’informazione rievoca il Gran Premio di San Marino del ’94. E niente, percepiresti lo stesso assurdo orgoglio ad aver vissuto un dramma sportivo e umano, che ha segnato la storia di uno sport e non solo. Quasi al netto della sensazione di sbandamento che un bimbo della mia età visse quando la Melevisione crashò per dar spazio al notiziario dell’11 settembre 2001.
Su Ayrton Senna da Silva, chi più di me saprebbe raccontarvi qualcosa lo trovate tra tutti i nati negli anni ’80 e con un televisore a casa o una radiolina in tasca. Non basta che la Formula Uno ti sgorghi dentro, che sia un appassionato, quando la morte incombe su chi fa il proprio lavoro.
Un lavoro diverso, di nicchia, e con tutti i privilegi che vogliate. Un lavoro che a Senna ha dato notorietà, che lo ha innalzato al di sopra dei migliori di tutti i tempi, e che lo ha anche condotto al patibolo. Un lavoro che in maturità più volte apostrofò, fino all’ultimo. “Nessuno ci ha ordinato di correre in F1, ma non siamo pagati per morire”.
Ad Imola, un weekend oscenamente variopinto. Lungo e freddo, quanto le gocce di sudore di Rubens Barrichello, che per miracolo salva sé e quella che sarebbe di lì diventata una ferrea e lunga carriera. Rosso, quanto il sangue di Roland Ratzenberger che bagna il casco bianco, ricomponendo i colori dell’Austria, il suo paese. In F1 da poco, con la sua Simtek si era schiantato sul muro della curva Villeneuve dopo che un pezzo d’ala, danneggiato da un’uscita di pista nel giro precedente, si era staccato e una parte del profilo era andata a incastrarsi sotto la macchina, facendola decollare. Non bastò un giorno per piangerlo, né ventiquattr’ore per riaccendere gli occhi spenti di Senna, che il giorno dopo lo omaggiava con una bandiera nella sua Williams.
Non sventolò mai quella bandiera, perché al giro 7, dopo le concitate fasi di Safety Car per un incidente al via, le immagini di tutto il mondo vanno su quella macchina bianca e blu, che perde il piantone dello sterzo e, impazzita, si schianta alla curva del Tamburello. Il resto si sa, e sa di morte. Tra i tifosi, poco prima, dei detriti avevano colpito alcune persone provocando dei feriti. A casa vedono Senna muovere la testa, e credono che di lì a un po’ si rialzi. Ripeté più volte di essere incapace a sopportare il dolore, per cui l’attesa era alquanto plausibile.
Non è vero, Ayrton Senna è morto. E prima che i potenti e confusi mezzi dell’informazione moderna ne dessero l’annuncio, sospinti dalle solite disposizioni sul quando dirlo, e come dirlo.
Un pilota morto in pista, anzi due piloti morti in pista nel giro di un fine settimana, e un terzo miracolato. La Formula 1 sfigurava di fronte alla prova straziante che questo sport aveva bisogno di un ridimensionamento. Auto molto più prestazionali e veloci, tanto che la guida sarebbe dipesa ancora di più dal pilota. I nuovi regolamenti misero al bando ogni tipo di agevolazione, dall’ABS alle sospensioni attive (vietate da quell’anno: la vettura era progettata per montarle, e Ayrton si lamentava della continua alternanza di sottosterzo e sovrasterzo della vettura che era divenuta impossibile da gestire), per arrivare al controllo di trazione, all’innalzamento della vettura da terra, alla riduzione della sezione delle gomme. Tutto ciò rendeva le vetture molto più indomabili, e per giunta più veloci.
Un sacrificio non voluto, chiaramente. Sono tante le foto che lo ritraggono in quei giorni, fino agli attimi prima della gara ed è certo che non sarebbe bastato conoscerlo per sentire che qualcosa per lui non andasse. Se Ayrton Senna da Silva non fosse morto, avrebbe corso fino al nuovo millennio e deposto lo scettro a quel certo Michael Schumacher (che il mondiale del ’94 lo vinse con la Benetton). Se Ayrton Senna da Silva non fosse morto, oggi bazzicherebbe il paddock col vecchio Alain Prost e forse avrebbe cercato anche lui di crearsi una scuderia col suo nome.
Sappiamo, però, che se quel giorno – che oggi ricordiamo – non se ne fosse andato ‘il migliore’, questo sport oggi sarebbe qualcosa di diverso.
“Senza quell’impulso, non saremmo mai andati a Bruxelles, non avremmo mai avuto l’Euro NCAP , i crash test, le leggi che hanno innalzato i livelli di sicurezza”. Le sincere parole dell’allora presidente della FIA, Max Mosley.
Avrei avuto difficoltà a proferirle, la rabbia sarebbe stata troppa. Di mezzo hanno sofferto uomini, famiglie e una nazione intera. Un lavoratore, che faceva valere i suoi diritti. E come spesso accade, nessuno ti ascolta fin quando a parlare è il tuo silenzio, quello eterno.
Nicola Puca
Fonte immagine in evidenza: thelightcanvas.com