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In questi due anni e mezzo il governo Meloni ha avuto sempre la stessa costante: le strategie comunicative messe in campo per distogliere l’attenzione dai dossier più scottanti. “Comunicare tanto e comunicare tutto“: cioè l’approccio scelto dal capo del governo per dettare l’agenda a giornali e opposizione non ha soltanto tale fine, ma anche quello di dare in pasto decine di argomenti più o meno rilevanti sotto il profilo mediatico – ma non sotto quello dell’utilità – tali da richiederne la pubblicazione sui giornali e fomentare la rivalsa delle opposizioni. Quanto accaduto lo scorso mercoledì alla Camera con Ventotene è soltanto l’ultima trappola comunicativa ben riuscita in cui PD e M5S sono cascati in pieno, cogliendo perfettamente la provocazione del governo e rispondendo di conseguenza, permettendo a Giorgia Meloni di rifiatare nei giorni successivi, quelli in cui è stata impegnata a ricucire – con successo, per ora – i rapporti con la Lega di Salvini, facendo passare in sordina, poi, un decreto legge sui servizi segreti che di polemiche ne avrebbe dovute causare.

Ma cosa è successo alla Camera dei Deputati? La Presidente del Consiglio, in occasione delle tradizionali comunicazioni prima di ogni Consiglio europeo, ha pronunciato un discorso che nel giro di poche ore sarebbe finito su tutti i giornali per la durezza e l’elevato livello di provocazione, tale da suscitare un’ondata di indignazione nazionale e addirittura qualche malumore all’interno della stessa maggioranza di governo, in particolare dentro Forza Italia. Durante le comunicazioni, Meloni ha citato alcuni passaggi del celeberrimo Manifesto di Ventotene, il documento redatto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni durante la loro permanenza in carcere. Lo scritto rappresenta uno dei fondamenti su cui si è basata l’idea dell’unità europea nel Novecento, un punto di partenza importante da cui l’intero continente è ripartito dopo la fine del Secondo conflitto mondiale.

Alle 11:47 di mercoledì 19 marzo, la Presidente del Consiglio ha citato due passaggi, in particolare, sull’abolizione della proprietà privata e sulla sospensione della democrazia. Chiaramente, non è un segreto che l’unica conseguenza di un’azione del genere sia quella di de-contestualizzare interamente l’intervento. D’altronde si tratta di un testo di 80 anni fa, quando la Germania nazista dominava il continente europeo, dopo aver sconfitto la Francia, e l’Unione Sovietica era retta da Stalin – con cui Hitler aveva stretto il patto di non aggressione Moltov-Ribbentrop. Presi singolarmente e senza contesto, i due riferimenti sono stati presentati da Meloni come esempi di “questa non è la mia Europa”, con fare provocatorio ma profondamente efficace nei confronti dell’opinione pubblica, da cui la Presidente si aspettava una reazione che è puntualmente arrivata – un buon comunicatore conosce il suo interlocutore e ne prevede la reazione. Una reazione che ha messo in ombra ciò che conta davvero – il presente, il piano ReArm Eu di cui si discuteva alla Camera e i malumori della Lega – permettendo al capo del governo di disinnescare ciò che le interessava davvero. Di Ventotene, per essere chiari, a Meloni non importava e non importa nulla.

Il manifesto per le allodole

Una trappola ben riuscita, studiata a tavolino e messa in campo con astuzia e intelligenza. Al di là delle varie e colorate opinioni politiche, dal punto di vista “comunicativo” Giorgia Meloni è la leader più preparata e quella che conosce maggiormente gli ambienti in cui svolge la propria attività. Nulla da fare per Conte e Schlein che si devono arrendere di fronte all’evidenza: da circa due anni, e cioè da quando il governo Meloni è salito al potere, non sono mai riusciti a dettare la propria agenda ai media e all’opinione pubblica, sfruttando i numerosi scivoloni e scandali in cui è incappato l’esecutivo di centrodestra. Dalle gaffes di Lollobrigida ai casi Almasri, Santanché e Paragon, di materiale su cui lavorare e impostare una campagna di comunicazione ce n’era, ma Giorgia Meloni è sempre riuscita a dirottare l’attenzione degli italiani su altro e il suo consenso non ne ha (quasi) mai risentito. La Presidente del Consiglio conosce bene come e quanto intervenire sui temi, dirottando l’attenzione altrove e facendo sostanzialmente, come si dice in gergo, “caciara“, strategia tanto vecchia quanto efficace.

Anche in questo caso, con Ventotene, è andata così. Giorgia Meloni ha tirato fuori un argomento sensibile, anche in contrapposizione alla manifestazione europeista di Michele Serra in cui sono state criticate le politiche migratorie del governo, e che sicuramente avrebbe avuto l’effetto desiderato: il celebre manifesto in cui alberga quell’idea di unità europea che ha ispirato chi, dopo circa dieci anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, ha portato i primi sei Paesi a firmare il Trattato di Parigi nel 1951. Riprendendo alcuni passaggi del documento e in particolare quelli sull’abolizione della proprietà privata e sulla sospensione della democrazia, la Presidente ha ribadito come quella non sia e non possa essere la “sua Europa”.

Tutto questo accadeva in un preciso momento e con diversi dossier scottanti sul tavolo. Il particolare periodo storico che l’Europa sta vivendo è cosa nota, i governi non sono mai stati così impegnati in politica estera come durante queste settimane. La Commissione europea ha lanciato uno storico, corposo e importante piano di riarmo (ReArm EU) che, in teoria ma non in pratica, dovrebbe rendere i Paesi europei meno dipendenti militarmente dagli Stati Uniti. Sul punto si è aperta una lunga e tortuosa discussione in seno alle cancellerie continentali, perché nelle stesse maggioranze di governo ci sono opinioni diverse. Un caso è proprio l’Italia, con la Lega che ha deciso, sostanzialmente, di diventare il megafono di Donald Trump ed è irremovibile sulla contrarietà al riarmo europeo, mentre Forza Italia ha dato mandato al capo del governo di votare a favore. Il giorno delle comunicazioni si discuteva proprio di questo alla Camera, mentre sulle chat governative circolavano i messaggi di Riccardo Molinari, esponente di spicco della Lega, che asseriva che il governo non avrebbe mai avuto il via libera del Carroccio per votare a favore del piano il giorno successivo, quando Meloni si sarebbe incontrata in sede di Consiglio europeo con gli altri capi di Stato e di governo.

Ma non era un segreto che la Lega mal sopportasse tutto questo “attivismo europeo” della Presidente del Consiglio, che con il sostegno all’Ucraina aveva più volte sostenuto, assieme a Macron e al primo ministro britannico Starmer, le posizioni del Presidente ucraino Zelensky, in quel momento abbandonato dagli Stati Uniti. Da quelle confuse settimane è nato quell’afflato europeista che ha portato la Commissione a ripensare alla Difesa comune. Salvini da un lato ha bisogno di più spazio politico per legittimare la sua posizione all’interno del partito (a breve si voterà per il nuovo segretario, carica per la quale lui è l’unico candidato) dall’altro è da mesi alla ricerca di uno spazio meno angusto, all’interno dell’esecutivo, per recuperare consenso. Salvini ha bisogno di maggior credito per rafforzare la fiducia dell’elettorato leghista e di risultati da portare al Congresso del 5 aprile. Per questa ragione il leader ha presentato con tanta enfasi la breve telefonata intrattenuta con il vicepresidente americano Vance. Quello della politica estera è l’unico vero dossier su cui Salvini si sta impuntando, mettendo in seria difficoltà Giorgia Meloni. E tali difficoltà si possono intuire facilmente dai tentativi di intervenire con minuzie linguistiche o lessicali per prendere tempo.

Quello appena esposto è il contesto in cui si colloca “Ventotene”. A Meloni occorreva un diversivo per distogliere l’attenzione dalla claudicante situazione interna del governo e per provocare l’opposizione, affinché facesse “caciara” autonomamente abboccando al suo tema d’agenda, portando a spasso i giornali e, infine, per rinsaldare ancora di più il legame con i suoi elettori. Tale interpretazione è confermata dal fatto che il governo abbia preparato un “dossier” – in realtà una scheda di comunicazione, prodotta dagli staff dei partiti – che dettasse la linea comunicativa ai parlamentari sul caso Ventotene così da “farli uscire” sui giornali, nelle interviste e anche nelle dichiarazioni con atteggiamenti compatti e coerenti con le parole della leader. Prova, questa, dell’esistenza di una linea comunicativa pre-Manifesto e di una premeditazione che non ha lasciato alcun dettaglio al caso.

Meloni ha lanciato l’amo e l’opposizione vi è abboccata. Al manifesto per le allodole, nobile documento le cui idee sono state prestate all’ennesimo gioco di prestigio (riuscitissimo) comunicativo andato in scena alla Camera, Conte e Schlein hanno dimostrato di non riuscire a stare dietro a Meloni, la quale continua a nascondere efficacemente gli scricchiolii del suo governo con la strategia più efficace di tutte, guadagnando tempo e facendo diplomazia interna. M5S e PD sono in affanno e le divisioni interne non fanno che alimentare la sensazione di smarrimento di chi, in crisi di legittimità e di consenso, procede a tentoni quando non esiste una linea comunicativa condivisa.

Donatello D’Andrea

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