Ahed Tamimi, la nuova Giovanna d’Arco di Palestina, è la diciassettenne che il 19 dicembre è stata arrestata per aver schiaffeggiato un soldato delle forze di occupazione. La vicenda di Ahed, che è diventata un simbolo della terza Intifada ed è conosciuta a livello internazionale, è solo una delle numerose storie di minori palestinesi che si trovano nelle carceri israeliane.
Accanto ad Ahed Tamimi, infatti, ci sono tra gli altri: Razan Abu Sal, 13 anni, la donna più giovane fra i minori palestinesi nelle carceri israeliane, condannata a 4 mesi per essere in possesso di un coltello; Abdel Raouf al-Bilawi, 13 anni, ha visto il processo lo scorso 22 gennaio ed è stato condannato anche lui a 4 mesi per aver lanciato delle pietre contro le forze di occupazione israeliane.
Una situazione conosciuta, che le famiglie in Palestina subiscono da anni e che da anni le forze d’Israele continuano a ripetere.
Centinaia di ragazzi e ragazze sono passati negli anni attraverso le sbarre delle carceri israeliane. Ora, dopo la dichiarazione di Trump su Gerusalemme e con l’aumento delle proteste, il numero di minori detenuti nelle carceri è in aumento.
La detenzione di minori palestinesi non è un’eccezione nelle carceri israeliane
Seppure dovrebbe essere trattata come l’ultimo rimedio possibile, la detenzione di minori palestinesi è diventata un’arma in mano alla repressione. Questo anche per via della detenzione amministrativa, cioè la possibilità di detenere l’imputato fino a che il processo non ha effettivamente inizio, anche se nessun reato è stato commesso, «sulla base del fatto che lui o lei potrebbe infrangere la legge in futuro».
Si tratta di una misura che dovrebbe essere adottata solo in via straordinaria, mentre è ciò che succede nella maggior parte dei casi, anche quelli riguardanti i minori.
È quello che, ad esempio, sta succedendo in questi giorni ad Ahed Tamimi, arrestata lo scorso 19 dicembre. La ragazza avrebbe dovuto affrontare lo scorso 31 gennaio la seconda udienza del processo, rimandata al 6 febbraio. Tutto questo tempo lo ha passato in carcere.
Un uso, quello che le forze israeliane fanno della detenzione amministrativa, che secondo molti viola le norme del diritto internazionale.
Inoltre, nella Cisgiordania c’è un diverso sistema giudiziario: si viene processati nelle Corti Militari, che sono diverse da quelle civili. Si può finire qui dentro per una svariata serie di motivi (dal lancio di pietre all’ingresso in Israele senza permesso, dal possesso di armi al far parte di un’associazione illegale) e anche qui la detenzione prima della fine del processo (e della prova di colpevolezza) è la norma piuttosto che l’eccezione.
Una legge che, però, non è uguale per tutti già dal 1980, quando è stato stabilito che i cittadini israeliani sarebbero stati giudicati nelle corti civili anche qualora fossero stati abitanti dei Territori Occupati e avessero commesso un reato al loro interno. Un sistema, questo, che di fatto è operativo unicamente nei confronti dei palestinesi.
Nessun diritto per i minori palestinesi in carcere
A tutto questo, si aggiunge il fatto che i minori vengono trattati allo stesso modo degli adulti, non godono di alcun tipo di tutela in virtù della loro età e subiscono atti di brutalità e violenza.
Ad esempio, come documentato dal Centro di Informazione di Israele per i Diritti Umani nei Territori Occupati, Warud Hamamd racconta la storia dell’arresto di suo figlio 15enne:
«Nei primi dieci giorni gli aveva addirittura negato un incontro con il suo avvocato e nessuno della famiglia poteva vederlo. È stata molto dura. Quando è uscito, aveva problemi di salute.»
Dalla stessa storia, apprendiamo che il ragazzo è stato tratto in arresto con violenza nella sua casa, mentre dormiva, e poi portato in caserma bendato. Durante il tragitto è stato anche picchiato, preso a calci.
Anche una volta dentro la macchina della violenza non si ferma: maltrattamenti, abusi, torture sono stati documentati e raccontati negli anni e continuano ad avvenire nella totale impunità.
Dopo l’uscita dalla prigione, la maggior parte di questi ragazzi vive lunghi periodi di disagio fisico e psicologico, spesso non vogliono tornare a scuola oppure hanno perso il lavoro che permetteva loro di aiutare la famiglia ritrovandosi ad affrontare difficoltà economiche.
All’interno di una quotidianità che è già quella della lotta e della resistenza, un sistema del genere, teso a stroncare qualsiasi velleità di ribellione, è specchio di una situazione più generale di repressione violenta del popolo palestinese, in cui le carceri sono soltanto uno dei tanti, possibili strumenti.
Ha però una conseguenza: rinfocolare un clima di tensione e forgiare la tempra dei più giovani, che diventano eroi e martiri all’interno di una lotta impari.
Elisabetta Elia