La Negritudine e l'invenzione dell'Africa nell'immaginario coloniale
The Paradise Edict (2019) by MIchael Armitage Fonte: telegraph.co.uk

Con i compromessi politici della Guerra Fredda, dalla metà del Novecento ha inizio il processo di decolonizzazione, con l’indipendenza di molti paesi dell’Africa. È in questo periodo che numerosi intellettuali denunciano insieme la ferocia del suprematismo bianco: l’Occidente non ha civilizzato, ma assediato, dominato e depredato una cultura preesistente. La negritudine è un movimento letterario, culturale e politico che si è sviluppato nel XX secolo nelle colonie francofone e che coinvolse scrittori africani e afroamericani. Gli esponenti di questo movimento si proponevano di affrancare i propri popoli dal complesso di inferiorità imposto dai colonizzatori attraverso la rivendicazione delle qualità peculiari proprie dei neri. Si tratta di un grido di denuncia in risposta alla politica assimilazionista francese, la quale prevedeva la concessione di privilegi a quegli africani disposti ad abbandonare la loro cultura d’origine, sostituendola con comportamenti europei. Tale movimento contrastava oltretutto la diffusione, da parte dei maggiori Stati europei, di un’immagine del continente africano totalmente falsata, che arrivava a produrre una vera e propria “invenzione” dell’Africa.

La comparsa del termine negritudine e l’esperienza de L’Étudiant noir

Siamo nel 1936 quando Aimé Cesaire, poeta surrealista della Martinica, utilizza per la prima volta il termine négritude (negritudine). Intorno a lui a Parigi si forma un gruppo tanto solido quanto eterogeneo, che fonda la rivista L’Étudiant noir. Tra queste pagine c’è anche Il Ritratto, una delle prime poesie di Léopold Sédar Senghor, un giovane senegalese studente di Lettere:

Lui ancora non conosce
L’ostinazione del mio rancore acuita dall’inverno
Né la necessità della mia negritudine tiranna” […]

Oggi la negritudine non è più condivisa da molti intellettuali e artisti africani, tuttavia il suo ruolo storico è incontestabile per comprendere la ricomposizione della vita culturale del continente africano. Sono ben noti gli interessi economici e strategici che, a partire dall’epoca delle grandi scoperte geografiche fino ai primi decenni del Novecento, portarono i maggiori Stati europei in modo progressivamente sfrontato alla colonizzazione di gran parte del mondo. Un movimento di tale durata, ampiezza e partecipazione di uomini non avrebbe tuttavia potuto prodursi senza un’articolata strumentazione culturale, senza, cioè, che nell’elaborazione ideologica di gran parte delle élites intellettuali e nella coscienza di milioni di europei l’avventura coloniale trovasse una qualche forma di giustificazione morale.

La copertina del primo numero de L’Étudiant noir, pubblicata a Parigi nel marzo 1935
Fonte immagine: commons.wikipedia.org / CC BY-SA 4.0

Nel corso dell’Ottocento la natura della politica colonialista, dapprima focalizzata su una legittimazione di tipo religioso, cambiò radicalmente a vantaggio di una strategia di sviluppo economico e commerciale: non più disposta a lasciarsi sfuggire capitale umano e materiale, i popoli colonizzati divennero preziosa manodopera e al contempo “mercato” per le industrie europee.

L’Africa nell’immaginario occidentale

Fu in questo periodo che cominciò ad affermarsi un’idea di Africa non solo totalmente diversa dall’Europa, ma soprattutto diversa da se stessa. Irrazionale, primitiva e arretrata, terra “esotica” e piena di ricchezze, senza voce ed esclusa dal tempo storico. Il filosofo e poeta congolese Valentin-Yves Mudimbe esamina criticamente tale posizionamento nel suo libro L’invenzione dell’Africa, pubblicato nel 1988 (e tradotto in italiano solo nel 2007). In queste pagine evidenzia lo scarto tra la realtà del continente africano e il processo di costruzione della sua immagine in Occidente, arrivando a parlare, appunto, di Africa “inventata”. Un’invenzione che si è andata a organizzare in modo sempre più articolato man mano che la colonizzazione del continente andava progredendo. Mudimbe invita a riflettere sull’epistemologia coloniale ed eurocentrica che di fatto ha consentito a tale processo di evolversi. Questa epistemologia, basandosi su un distorto concetto di “etnicità” e negando le identità culturali delle popolazioni marginalizzate, banalizza secoli di sfruttamento, schiavitù e violenza.

Nel descrivere l’Africa e gli africani per il pubblico europeo, i viaggiatori europei infatti non parlavano veramente dell’Africa e degli africani; piuttosto hanno contribuito a produrre una spiegazione univoca, una single story, dell’inserimento forzato degli africani in una nuova dimensione storica, che prelude alla colonizzazione europea. Tale narrazione è avvalorata dalla percezione del continente come blocco unico, come se non fosse in realtà costituito da 55 Stati (54 per le Nazioni Unite), ognuno con una propria storia e una propria organizzazione sociale, politica e culturale. “To know our natives”, conoscere i nostri nativi, diventa uno degli imperativi del potere coloniale. Ma si tratta di una conoscenza che è fortemente plasmata dalle rappresentazioni costruite nei secoli precedenti e che nell’Ottocento era alimentata da un nuovo razzismo pseudoscientifico. Descrivere gli africani come “primitivi” e bisognosi di aiuto, infatti, implicava affermare che erano incapaci di sviluppare autonomamente le proprie risorse e che quindi non solo la colonizzazione era utile, ma quasi necessaria.

Rispetto a tali eventi nacque la necessità di proclamare l’esistenza di una dignità culturale specifica che accomunasse tutti gli africani del continente e delle diaspore. La negritudine rispose all’esigenza di recuperare un abbandono procurato da secoli di sfruttamento e violenza. Per cui non parliamo di una categoria di ordine esclusivamente biologico: si tratta piuttosto di un movimento più ampio che, a partire da un concetto di arte pragmatica e trasformativa tenta di decostruire i pregiudizi che animano il dibattito sull’Africa, riesplorando, modellando e caratterizzando le esperienze di una certa forma di vita umana. In questa spinta di rivendicazione, l’arte è l’atto di trasformazione per eccellenza, è lo strumento di liberazione. Nel discorso in occasione del conferimento del Titolo di Presidente dell’Accadémie Française nel 1983, Léopold Senghor descrive così l’arte africana e la negritudine:

"Non si tratta di un'arte per l'arte [...], bensì di un'arte legata alla vita di tutti i giorni. Perciò è collettiva [...]. L'opera d'arte africana esprime un'idea che è sentimento-immagine: simbolo. Mentre l'estetica greco-latina trova il bello nell'imitazione della natura, quella africana si emoziona per il senso nascosto racchiuso entro il segno che gli si manifesta [...]. Tuttavia l'immagine non è sufficiente per dare all'opera d'arte tutta la sua poesia, tutta la sua forza di suggestione. In verità è il ritmo che esprime la forza vitale, l'energia creatrice. L'immagine non raggiunge il suo pieno effetto se non quando è animata dal ritmo. Il ritmo è l'architettura dell'essere, il dinamismo interno che gli dona forma. Il sistema di onde che l'essere emette in direzione degli altri, [...] introduce la varietà, la rottura; nella ripetizione il ritmo nasce, si rafforza, esprimendo così la tensione dell'essere nel suo atto di produrre qualcosa di essenziale. Il ritmo è, incontestabilmente, l'impronta della negritudine".

Qual è dunque lo scopo originario della negritudine? Solo autenticità, ritrovare quell’intimità che si è contaminata col tempo, è il tentativo di decolonizzare l’immaginario attraverso una lotta culturale per l’emancipazione che non vuole mettere da parte il passato perché vuole contrastare il pericolo di una progressiva perdita della memoria collettiva. Si tratta della volontà di spegnersi nella cultura bianca per rinascere nell’anima nera attraverso una resistenza corale. In questo scenario, l’arte pragmatica assume un ruolo centrale in quanto capace di donare dimensione collettiva al processo di trasformazione e riappropriazione storica.

Questo processo di rivendicazione è perlopiù ignorato dalla maggior parte del mondo occidentale, dove i mezzi d’informazione hanno da sempre situato il continente africano in una dimensione umana estremamente distorta. Anche la politica è intesa come totalmente altra: la conflittualità viene ascritta a un atavismo barbaro e vengono ignorate le questioni legate al controllo delle risorse e del territorio. Gli atroci conflitti in Sudan, in Somalia, nella Repubblica Democratica del Congo, per citarne solo alcuni, sono ridotti a scontri etnici interni estranei a interferenze e interessi internazionali. Invece, seppure nel corso del XX secolo molti Stati africani siano diventati spazi di lotta politica anticoloniale, l’influenza occidentale ha continuato a estendersi in diversi modi, in particolare nell’ambito delle politiche di sviluppo e piani di aggiustamento strutturale (PAS) proposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, in linea con l’idea di un’Africa incapace di provvedere a se stessa.

Il complicato rapporto con le logiche coloniali

E ancora oggi l’Africa si fa sempre più antitesi dell’Europa, polo negativo, lo specchio nel quale l’Europa si riflette per affermare e costruire la propria identità, ovvero, per usare la potente similitudine impiegata dallo scrittore nigeriano Achebe,

“l’Africa è per l’Europa ciò che il ritratto è per Dorian Gray” (Achebe, 2016).

Un’immagine che diventa permanente, tanto radicata da passare quasi inosservata, insieme al razzismo di cui si alimenta. Se quindi, sul nascere, la negritudine rappresentava una risposta istantanea e necessaria all’approccio predatorio occidentale, con gli occhi della contemporaneità questa mostra in modo più evidente tutta la sua ambiguità nel suo costituirsi simultaneamente come tentativo di liberarsi dell’influenza coloniale e prova di questo rapporto ancora esistente: è la proclamazione di ciò che si è e allo stesso tempo grido di denuncia per l’esigenza di dover ancora giustificare la volontà di autonarrarsi e rinegoziare i termini della propria esistenza. Per molti studiosi e saggisti africani contemporanei, l’esperienza della negritudine non è esente dagli stereotipi e dalle categorie del suprematismo bianco. La negritudine è poetica identitaria di liberazione definita attraverso una parola francese, un vocabolo creato seguendo le regole più comuni della grammatica di questa lingua colonizzatrice. Citando il poeta nigeriano Wole Soyinka: “la tigre non proclama la sua tigritudine; essa assale la sua preda e la divora”.

Ma volendo andare oltre le ambiguità del termine negritudine, è interessante come questo movimento inviti a riflettere sull’esigenza ancora attuale di dover legittimare le proprie condizioni di esistenza e la propria storia. La negritudine, intesa come presa di coscienza, non appartiene solo ai neri in quanto tali, ma a tutti coloro che subiscono la prepotenza e la violenza di politiche voraci e disumane. La negritudine come lotta di classe tra i poveri e i ricchi del mondo, come la definì Pasolini molti anni prima di Césaire.

Movimenti come Black Lives Matter denunciano la ferocia razzista e la violenza dilagante sorretta da un sistema di oppressione che si autoassolve di continuo per i propri scopi imperialisti e suprematisti. L’emergere di figure apertamente psicotiche come Trump o Milei, il genocidio del popolo palestinese, le guerre alle frontiere orientali d’Europa, gli “scontri etnici” creati a tavolino per legittimare l’esportazione del grande mito della democrazia, sono di fatto tutti fenomeni che affondano le loro radici nello stesso male, e cioè in un sistema spietato e amorale che funziona esattamente come previsto. L’impotenza e la limitatezza non sono condizioni tollerabili per la “mente” occidentale che ha sempre puntato alla crescita infinita. Il corpo bianco globale è come in preda a una reazione disforico-psicotica contro i corpi proliferanti del Sud del mondo, e il razzismo ne è il nucleo.

Come reagire a tutto questo? La riappropriazione della propria storia avviene solo attraverso il riconoscimento del presente e la consapevolezza di una nuova identità che non consente di parlare né unicamente di tradizioni, né di assimilazione a un nuovo mondo straniero. Per questo motivo e per altri, sebbene a molte orecchie privilegiate possa suonare scontato, è ancora in gioco l’esigenza, il diritto, il dovere di essere ciò che si è e costruire collettivamente una resistenza che permetta di essere riconosciuti dignitosamente per questo.

Mena Trotta

Mena Trotta
Classe 2001, laureata in filosofia e studentessa di antropologia culturale ed etnologia all'università di Bologna. Mi nutro di curiosità, fotografia e parole. Fermamente convinta del potere sovversivo dell'arte, in ogni sua forma.

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