Dai più intesa come elemento ludico, di svago o addirittura strumento di profitto, l’arte può indubbiamente essere ognuna di queste cose; ma sarebbe pleonastico puntualizzare che rappresenta molto altro. Per quanto si possa averne una concezione individuale, personale, vi sono degli elementi fondamentali che identificano l’arte, in ogni sua forma, come qualità innata dell’essere umano, che fin dagli albori della storia ha fatto ricorso a mezzi di espressione e comunicazione artistica. Con Stefania Ianniello, artista napoletana, ne abbiamo approfondito il valore parresiastico e terapeutico.

Cominciamo a conoscerci: chi è Stefania Ianniello?
«Ho 34 anni e disegno fin da quando ne avevo 3. Ho frequentato l’Accademia dal 2008, con alcuni corsi aggiuntivi alla Scuola italiana di Comix. Ho poi fatto bottega in studi d’artista, arte di strada per diversi anni, sono stata responsabile e ho collaborato con alcune gallerie. Ho esposto nell’hinterland napoletano, ma anche a Milano e a Parigi. Ho poi iniziato un percorso da assistente in Accademia in corsi legati alla pittura, tenuto worskshop all’università, do lezioni private di disegno e pittura e poi concorsi, magazine, pubblicazioni, insomma tutto ciò che gira intorno al disegno e all’arte.»

Soffermiamoci sull’esperienza accademica: che ambiente hai trovato?
«Nel pratico, il cultore ha mansioni limitate rispetto al suo reale lavoro. Nel mio caso mi sono ritrovata a fare un po’ tutto, dal primo approccio alla revisione dei lavori, dalle lezioni su come si disegna all’esame. Ho avuto a che fare con numerosi ragazzi che seguivo in presenza e online, perché sentivo la responsabilità di trasmettere loro le basi attraverso un percorso sul disegno, di comprendere le loro esigenze progettuali, e stabilire lo scopo del progetto in itinere di studio. A latere, però, il corso prevede altre attività, come il materiale da procurare, le visite guidate, gli aspetti burocratici, i workshop e via dicendo. Aspetti quindi di ordine pratico e comunicativi, oltre ovviamente a portare avanti un sistema omnicomprensivo atto a produrre una valutazione e assumersene la responsabilità. In alcuni frangenti ho percepito la necessità di una metodica ben precisa, consolidata, e questo rischiava di ripercuotersi sull’ambiente circostante e sulle persone che studiano, che sono persone di ogni età, sesso ed estrazione sociale. Può capitare che le regole interne di governance varino in base a una serie di fattori non controllabili, e questo finisce per inficiare l’esperienza all’Accademia, che per quanto possa apparire meravigliosa rischia di non essere abbastanza professionalizzante, con tutte le ripercussioni del caso.»

Credi nel valore terapeutico dell’arte? Soprattutto negli ultimi anni si sono sviluppate e messe a punto tecniche come la musicoterapia o la fiaboterapia: in che modo l’arte può accompagnare un percorso terapeutico?
«Quando ci riferiamo alle tecniche attualmente esistenti parliamo di percorsi funzionali a un momento, che possono dare un contributo relativo, circostanziato, come un palliativo. Se consideriamo il potenziale dell’arte, in questi ambiti è del tutto inespresso, perché l’arte nasce da un materiale umano, e in quello può svilupparsi. A mio avviso va fatto un lavoro individuale, non collettivo, che viene poi socializzato. Ed esiste un potenziale molto più ampio, oltre alla “semplice” fruizione attraverso il quale operare. Tramite il disegno, ad esempio, si può delinare la figurazione interna di un essere umano, una sorta di “mappatura pittorica” della persona. Questo rende visibile ciò che visibile non è, riuscendo così a strutturare un percorso mirato sull’individuo che tenga conto di tutti i suoi aspetti e le sue necessità. Tutti i grandi artisti hanno compiuto questo percorso, partendo da sé stessi. Non è qualcosa che si può svilire o ridurre a un momento unico, che viene anche oggi spesso commercializzato (come gli aperitivi artistici), e che ha poi l’effetto collaterale di rendere un’immagine non veritiera dell’arte. Occorrono soltanto due cose: silenzio e tempo. Senza queste due condizioni si creano troppe distorsioni, non c’è una vera connessione, tutto si limita a un semplice stimolo, uno dei tanti stimoli che la società ci impone a mo’ di necessità: lo fai, lo pubblichi su Instagram e scrolli avanti. Non siamo più abituati a restare seduti davanti a un quadro. Dovremmo riabilitare una serie di capacità che abbiamo sedato: godere pienamente di un colore, una brillantezza, la capacità di spostare il corpo in funzione di una matericità. E questo soltanto da un punto di vista fisico; sul piano emotivo si aprono infinite possibilità. Non si può “insegnare”: è mettere un bambino davanti a un girasole per fargli sentire il giallo che entra dentro attraversandolo. Solo così lo può “imparare”, solo così arriva un Vermeer, un Van Gogh o un Klimt. Non si tratta di conoscere a livello nozionistico, ma di esperire. Lo studio si fa attraverso il corpo, perché la percezione arriva prima della cognizione. Se andassimo a riabilitare la nostra capacità di sentire prima ancora di pensare sarebbe più difficile manipolarci; infatti è proprio quello che si cerca di ottundere.»

L'artista napoletana Stefania Ianniello: l'arte è la cura
Stefania Ianniello

Dobbiamo imparare quindi a decostruire, a smantellare quello che ci è stato costruito addosso e ritornare a una condizione originaria, non opinabile.
«Anche la meraviglia della poesia, della musica, della pittura, è uno squarcio in mezzo a quello che non è meraviglioso. Emerge per contrasto, per prepotenza rispetto a ciò che è grigio. Il grigio è un mischiarsi di colori in quantità non precise, è un non significabile, una gabbia, una serie di sovrastrutture culturali e dogmatiche che separano la nostra percezione del mondo esterno. È quello che dobbiamo rompere, prima di tutto rendendoci capaci di vederle, individuarle, di riabilitare una sensibilità interiore ed esteriore.»

È quindi l’arte che imita la vita o è la vita che imita l’arte?
«Non mi piace la parola “imita”, perché imitare è un processo razionale: strutturo un’immagine per comunicarla. Ma quando si parla di arte si parla di realtà. Non c’è nulla da costruire, perché potrebbe non arrivare, essere fraintesa. Il processo artistico è un dare, non è un imitare, non è un formulare. Se stiamo imitando, non stiamo facendo nulla di utile rispetto a un processo artistico. L’arte è un atto reale, come mangiare, passeggiare, fa parte della vita, dunque non la imita. Comunicare significa dare tutto, senza perdere pezzi, così come è: altrimenti non sortisce alcun effetto. L’arte non deve tendere al bello, al gradevole, deve essere utile, come uno schiaffo educativo.»

Come vorresti nascere nella tua prossima vita?
«Libera. E la solitudine è il prezzo da pagare per la libertà.»

Cambiamo argomento per un attimo: l’Italia valorizza adeguatamente il proprio immenso patrimonio artistico e le risorse e competenze umane?
«Il patrimonio artistico preesistente è valorizzato in quanto mezzo di profitto, quindi in funzione del turista che porta denaro. Ma è una valorizzazione di facciata, perché le risorse non vengono realmente tutelate: soltanto la manutenzione potrebbe creare numerosi posti di lavoro che invece non ci sono. E questo senza contare tutte le opere stipate nei magazzini e lasciate a deperire… Il vero problema è che quei soldi, poi, vengono utilizzati per tutt’altro. Eppure, così come la medicina cura il corpo, l’arte cura l’anima, per cui sarebbero risorse ben investite. Ma il personale non viene formato adeguatamente, fin da ciò che accade a scuola con l’ora di storia dell’arte, che viene considerata poco più che un’ora di ricreazione. Eppure abbiamo un patrimonio artistico che è tra i più importanti al mondo.»

Qualcuno a suo tempo sosteneva che con la cultura non si mangia…
«Se un turista tedesco o americano arriva a Napoli cosa fa? Si fa il programma delle cose da vedere, le spunta quando le ha viste e poi le posta su Instagram.»

Posto quindi sono, direbbe Cartesio.
«Non si tratta di pensare o sentire, di utilizzare l’arte per le sue funzioni: l’arte è tutelata solo nella misura in cui assolve altre funzioni. Adesso va di moda la turistificazione di Napoli, domani potrebbero essere le patatine fritte o i videogame… per lo Stato ha importanza solo nella misura in cui genera profitto.»

“So che sarebbe giusto, perdonami: non sono questo!”

Ma con quello che viene definito “talento” ci si nasce o esso si può in qualche modo allenare?
«Più che allenare, si può riabilitare. Il che aiuta a mettere in funzione qualcosa che non abbiamo utilizzato, ma che avevamo già in potenza. Secondo me tutti quanti nasciamo con una capacità di senzienza e restituzione, poi veniamo influenzati dalle sovrastrutture della società e questa abilità viene inibita. Molte persone sono convinte di non essere predisposte per questo motivo. È come rimuovere una corazza per far sì che il corpo percepisca tutto quanto avviene all’esterno. È una capacità che va ritrovata, senza i filtri culturali imposti dalla società: guardare un prato in televisione e correre a piedi nudi su quel prato sono due cose ben diverse. E una volta che si percepisce, può creare dipendenza. Nessun essere umano tornerebbe indietro dopo averlo sperimentato. La parola chiave è il coraggio.»

Il coraggio di toglierci la corazza?
«Sì, è non è qualcosa che si fa in un solo momento, ma gradualmente. È destabilizzante, perché ci accorgiamo di cambiare, scoprirci, essere vulnerabili. Però ci restituisce la nostra autenticità, senza i condizionamenti del mondo esterno. A quel punto possiamo mettere tutto in discussione. E l’arte ha un grande potere in questo, a patto che non la releghiamo alle domeniche gratis nei musei.»

Se incontri il Buddha per strada, uccidilo. Uccidi il tuo maestro, ovvero le sovrastrutture che ci vengono imposte fin da bambini. E perché dobbiamo farlo? Perché dobbiamo sentire, esperire, e solo allora valutare, giudicare.
«È un riscontro totalmente diverso. Se ho fame, so che devo mangiare. Qualcuno può venirmi a suggerire una dieta, ma io ho fame, devo mangiare. Se il mio sentire si esprime efficacemente, non è possibile inficiarlo o mettere in dubbio il messaggio che porta.»

Ma esiste un limite? Parlando di potenzialità innate nei singoli individui, possiamo pensare di approcciarci a ogni disciplina artistica allo stesso modo, come se ci fosse un alfabeto comune? Io per esempio scrivo, ma se domani volessi mettermi a cantare e dopodomani a ballare?
«Nel momento in cui ti approcci a un’attività pensando di doverla imparare ex novo ti troverai di fronte alle tipiche difficoltà: incamerare nozioni da esercitare e sperimentare, per arrivare pian piano a dei risultati e considerarla come un’esperienza fra tante. Ma se facessi riferimento a una naturale capacità di sentire, allora sperimenteresti la realtà sensibile in modo diretto, e saresti in grado di restituirla altrettanto efficacemente attraverso un mezzo artistico. Secondo la definizione di Treccani il verbo “apprendere” significa “portare dentro”: se noi “portiamo dentro” tramite una percezione siamo in grado di trattenere quella nozione direttamente sotto la pelle, anziché nel cervello. Abbiamo la capacità di restituire più facilmente ciò che abbiamo appreso. E questo restituire che cos’è se non comunicazione? E l’arte non è forse la stessa cosa? Se la matrice è uguale per ogni tipo di arte, perché non potremmo passare da un’arte all’altra come fanno moltissime culture non influenzate dai nostri schemi e sovrastrutture?»

Questa è anche la tua esperienza diretta. Vuoi dirci qualcosa in più?
«Da settembre dell’anno scorso sto studiando la sovrapponibilità dei processi creativi all’interno delle forme espressive. Ne viene fuori che in potenza siamo tutti identificabili in alcune macrocategorie, che sono soggette a variazioni se si interviene sulla capacità di espressione attraverso un mezzo artistico, nel mio caso il disegno. Tramite questo stesso mezzo si può delineare il “quadro” di una persona, proprio come quando si fa una diagnosi. Da lì si procede a equilibrare la persona e il suo modo di esprimersi, regolandone i deficit o potenziandone i punti di forza. Questo ovviamente si può applicare in ambito artistico, ma anche nel quotidiano, in un percorso professionalizzante e addirittura nell’infanzia. Quindi, lavorando sulla potenzialità di una persona si può regolare la sua comunicazione tramite una forma espressiva, renderla più efficace, e lavorare sulle sue sofferenze. Si apre inoltre la possibilità di accedere all’attività artistica per tutti, demolendo il concetto di arte come elitaria, tornando al suo aspetto originario di caratteristica umana. Questi dati sono stati sviluppati in modo statistico, e raccolti in un anno di attività col supporto di contributi scientifici.»

Che consiglio daresti a una persona che si sta approcciando all’arte?
«Sul piano professionale, di affidarsi soltanto alle proprie forze. Considerare di essere soli, agire da soli senza aspettarsi appoggi. Crearsi la possibilità di conoscere persone, fare esperienze personali, concrete. Capire perché lo si sta facendo. Il motivo è anche risultato. Tutto sta nel capire qual è l’esigenza, ma in realtà dove c’è la necessità di capire spesso si scopre che questa esigenza non c’è. E allora è meglio lasciar perdere.»

Che progetti hai in futuro?
«Non mi piace il termine “progetto”, perché la mia è un’esigenza, quindi qualsiasi cosa mi capiterà in futuro continuerò a dipingere. Disegno e pittura sono stati una costante nella mia vita, legati a un’esigenza che non svanirà; questa è una certezza. Spero comunque di ultimare il progetto a cui sto lavorando, dandogli una forma visibile e leggibile. Richiederà senz’altro del tempo, ma è ciò a cui mi sto dedicando ora. Anzi, non mi sarei aspettata un tale riscontro e interesse da chi vi ha partecipato finora, per cui ci tengo a ringraziare tutti dal profondo del cuore.»

Emanuele Tanzilli

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